La recente riforma del Governo Renzi, intitolata “La Buona Scuola”, ha riconfermato quale unico sistema di reclutamento dei docenti i famigerati maxi-concorsi a cattedre per esami e titoli. Il prossimo è stato già indetto e il relativo bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 29 febbraio.
D’altra parte, la Costituzione italiana stabilisce, all’articolo 97, che si debba accedere agli impieghi nella pubblica amministrazione unicamente tramite concorso, con eccezioni che devono rimanere numericamente limitate e motivate da esigenze particolari.
Agli occhi dell’opinione pubblica italiana, questa forma di selezione riveste un carattere ambivalente e contraddittorio; se da una parte l’uniformità nazionale delle prove le conferisce un’aurea di imparzialità, facendola considerare il mezzo più efficace per arginare il fenomeno delle raccomandazioni e del nepotismo, dall’altra non basta a placare l’innata diffidenza degli italiani che sospettano sempre, a torto o a ragione, trucchi e imbrogli. Quasi ad ogni concorso, infatti, si ripete il deprimente rituale delle denunce, dei ricorsi, delle richieste di accesso agli atti, mentre articoli di giornali e programmi televisivi gridano allo scandalo prima ancora che siano stati appurati eventuali illeciti.
Purtroppo ciò non fa che ostacolare ulteriormente lo svolgimento delle prove, già di per sé estremamente difficili da gestire visto il considerevole numero di candidati da esaminare e di compiti da correggere. Queste problematicità, unite ai costi altissimi, rendono spesso irrealistica la programmazione di concorsi per docenti con cadenza triennale; basti considerare che l’ultimo concorso a cattedre si è tenuto nel 2012, 12 anni dopo quello precedente del 1999, e che in 18 anni, dal 1982 al 2000, anziché sette (come era previsto) ne sono stati svolti solo tre per la scuola secondaria e dell’infanzia e quattro per la scuola elementare.
Questi ritardi hanno determinato la necessità di affidare incarichi a supplenti temporanei per coprire le cattedre vacanti, generando così una pletora di precari che per anni hanno assicurato il funzionamento della scuola italiana e che sono stati solo recentemente immessi in ruolo grazie al programma della legge 107/2015 (“Buona Scuola”).
Non deve quindi sorprendere se ad ogni concorso masse bibliche di concorrenti si contendono i pochi posti disponibili, dopo averne atteso magari per anni l’indizione e senza avere la certezza che ne seguirà effettivamente un altro a distanza di tre anni. Anche perché la posta in gioco è estremamente alta, i vincitori riceveranno in premio l’agognato “posto fisso”, una realtà sconosciuta alla maggior parte degli altri cittadini europei, per i quali la prospettiva di essere impiegati in uno stesso ente fino alla pensione è vista più come una iattura che come un privilegio, un ripiego per chi non ha grandi capacità o aspettative.
Il concorso pubblico, essendo un evento occasionale e a sé stante, ha indotto gli italiani a concepire il reclutamento nell’amministrazione statale e nella scuola come un momento circoscritto, disgiunto dall’attività lavorativa ordinaria. Chi opera infatti in un ente pubblico o in un istituto scolastico con un contratto temporaneo, anche se dimostra notevoli competenze e capacità, non ha alcuna possibilità di trasformarlo in un rapporto a tempo indeterminato né di progredire professionalmente senza superare un concorso. Un dirigente statale non ha la possibilità di segnalare per una promozione un dipendente, per quanto affidabile e brillante, come avviene nelle ditte private, ma dovrà attendere che sia bandito un concorso per il quale magari quest’ultimo non avrà i titoli necessari o le competenze richieste, visto che quasi sempre sono privilegiate le conoscenze giuridiche. I concorsi, nella loro asettica uniformità, sia per quanto riguarda i titoli richiesti sia per quanto riguarda le prove, non possono tenere conto delle qualità soggettive di un individuo, che potrebbero invece rivelarsi essenziali in una determinata posizione. Spesso poi i posti disponibili sono inferiori al numero dei vincitori, i quali vengono inseriti in una graduatoria e attendono per anni di essere immessi in ruolo, ma anche questo avviene solo sulla base del punteggio e non delle capacità effettivamente acquisite e dimostrate sul campo. In Italia ci si scandalizza tanto quando un professore universitario privilegia un proprio assistente in un concorso per ottenere la docenza, ma è davvero giusto che magari conoscendone le capacità e l’affidabilità dopo averci lavorato insieme per anni debba invece sceglierne un altro solo in base ai titoli? All’estero può tranquillamente proporlo per la docenza alla presidenza della facoltà che ha il potere di assumerlo senza bandire un concorso.
La mancanza di meritocrazia di cui tanto ci si lamenta in Italia — e che riguarda unicamente il settore pubblico — è dovuta proprio a questa “anomalia”, più che a raccomandazioni o nepotismo.
Occorre precisare, infatti, che la procedura concorsuale all’italiana è un sistema di reclutamento sconosciuto nella maggior parte delle nazioni europee, specie del Nord Europa. L’assunzione degli insegnanti nelle scuole pubbliche — e degli impiegati statali in generale — avviene con modalità simili a quelle delle imprese private, cioè sulla base di un colloquio e del curriculum. Solo la Grecia prevede un tipo di procedura concorsuale comparabile a quella italiana. La Francia ha anch’essa un sistema centralizzato di reclutamento per i dipendenti pubblici, gli insegnanti si formano all’università e sono assunti per concorso nazionale che però ha cadenza annuale. La Spagna ha un sistema di concorsi gestiti dalle regioni.
E’ innegabile che tra gli elementi che concorrono a determinare la qualità di un sistema scolastico ci sono sicuramente la modalità di accesso alla professione, la selezione del personale e la sua valutazione. Molti esperti sostengono che i sistemi educativi di maggior successo sono quelli che permettono alle singole scuole o alle autorità locali di selezionare il proprio personale.
Nelle nazioni del Nord Europa i docenti non sono assunti a livello nazionale, cosicché se desiderano cambiare istituto o trasferirsi devono dimettersi dall’incarico e candidarsi in un’altra scuola, oppure cambiare del tutto professione, eventualità che avviene abbastanza frequentemente.
In Finlandia, Norvegia, Svizzera, Regno Unito, Polonia, Estonia ed Austria, sia pure in maniere diverse e con l’eccezione della Germania, che lascia ai singoli Laender la gestione dei sistemi educativi, le scuole godono di grande autonomia e sono le prime responsabili della scelta del proprio personale docente.
Di solito, gli avvisi per la ricerca di personale scolastico sono banditi dalle scuole stesse o dalle amministrazioni locali con annunci su giornali o siti specializzati e i docenti interessati presentano domanda. Prima della selezione ogni scuola, autorità locale o chi per essa può definire propri criteri, di solito non ci sono limiti o requisiti generali da rispettare, fatte salve le declaratorie contenute in un decreto nazionale sulle qualifiche, che comprende anche quelle degli insegnanti. Una prima selezione avviene sulla base del curriculum, a volte è richiesta anche una breve tesina per spiegare le motivazioni della propria scelta professionale. In seguito il candidato è invitato ad un colloquio davanti ad una commissione. Il primo contratto è generalmente a tempo determinato, per valutare “sul campo” le capacità del docente, ma se supera la valutazione finale, il contratto può essere rinnovato a tempo indeterminato.
Per avere accesso all’insegnamento in molti paesi del Nord Europa, come l’Olanda e l’Inghilterra, è sufficiente la sola laurea triennale. Tuttavia, l’abilitazione è spesso tra i titoli richiesti ma ogni paese ha procedure particolari per abilitarsi e il percorso è raramente unico: di solito sono disponibili sia corsi universitari abilitanti sia corsi professionalizzanti con tirocini per studenti già laureati o lavoratori che desiderano cambiar mestiere. In Italia sono stati ideati negli anni metodi diversi per ottenere l’abilitazione, creando situazioni confuse e complesse da gestire, e alimentando diversi malcontenti. Il percorso più recente è quello dei tirocini formativi attivi (Tfa), ancora temporaneamente attivo in attesa che le università introducano le “lauree abilitanti ad accesso programmato”. Questo però escluderà tutti quelli che vogliono intraprendere la carriera educativa dopo aver svolto altre professioni.
In ogni caso, va precisato che oggi in Europa, anche in virtù del trattato di Bologna che incentiva e richiede una convergenza generale dei diversi sistemi educativi, università compresa, tutti questi sistemi sono ora confrontabili e, più importante ancora, mutualmente riconosciuti, per cui ogni abilitazione ha lo stesso valore.
In conclusione, la standardizzazione dei processi di assunzione viene spesso vista in Italia come una garanzia di equanimità ed obiettività, ma evidentemente non permette né di venire incontro alle esigenze delle scuole né di valutare compiutamente le capacità degli insegnanti. Le scuole che hanno sistemi di assunzione autonomi, privi di graduatorie, possono valorizzare anche aspetti difficilmente specificabili, come le capacità attitudinali e di comunicazione, le esperienze formative informali e tutto quello che può migliorare la qualità dell’insegnamento.
Gli insegnanti italiani si oppongono fermamente alla possibilità di essere reclutati direttamente dai dirigenti scolastici o da commissioni formate da docenti senior della scuola, sostenendo che i casi di nepotismo assumerebbero proporzioni enormi ed incontrollabili. Ma come fanno all’estero ad evitare che ciò accada? Innanzitutto, in quasi tutti i paesi, tra cui anche Grecia e Spagna, i contratti dei dirigenti scolastici sono a tempo determinato (di solito a 3 o 4 anni) e la valutazioni da parte degli organi di controllo sono regolari e severe. In Gran Bretagna, ad esempio, pochi docenti si candidano per diventare presidi poiché è estremamente difficile raggiungere gli obiettivi prefissati ed estremamente facile essere licenziati. In molti paesi, gli stipendi dei dirigenti e i fondi destinati alla gestione della scuola sono proporzionali ai risultati raggiunti. Quindi, per far funzionare al meglio il proprio istituto, ottenere valutazioni positive e richiamare un numero congruo di iscrizioni, il dirigente scolastico dovrà per forza assumere insegnanti capaci. In molti casi, pur di accaparrarsi gli elementi più validi, le scuole competono tra loro offrendo stipendi più alti o benefici aggiuntivi.
La tendenza, tipicamente italiana, di mettere in risalto prevalentemente gli aspetti negativi in ogni settore ci porta a dimenticare che nel nostro paese la maggior parte dei dirigenti scolastici e dei docenti, pur non rischiando il licenziamento, svolgono con passione e dedizione il proprio lavoro e ciascuna scuola è attiva nel proporre iniziative e offerte didattiche alternative volte ad ottenere la soddisfazione degli studenti e delle loro famiglie. I nostri alunni non ottengono forse risultati esaltanti nelle prove Ocse-Pisa, concepite per premiare il “fare” a scapito del “sapere”, ma il nostro sistema formativo ha dimostrato di essere in grado di produrre eccellenze e di preparare “cervelli” apprezzati in tutto il mondo. Chissà che una maggiore autonomia nella gestione della filiera educativa non porterebbe a risultati ancora più ottimali.