Il dibattito sulla scuola non si è quasi mai caratterizzato per i toni pacati, quanto meno negli ultimi anni. Ma quel che spiace in particolare è che la materia di un contendere tanto acceso non ha quasi mai riguardato le grandi questioni per cui la scuola esiste: l’istruzione e la formazione delle giovani generazioni. Ci si è invece scontrati su questioni di schieramento e, soprattutto, su quelle relative al personale. Così è accaduto in margine alla genesi della legge 107/15 e poi delle sue misure attuative. Da una parte il governo, ben deciso — sembra — a difendere uno dei suoi provvedimenti simbolo; dall’altra il sindacato e gruppi — esigui, ma rumorosi — della politica antagonista, che non hanno esitato ad evocare scenari apocalittici (“ogni scuola una Stalingrado”, una “legge liberticida”, “impedire in ogni modo l’attuazione della legge” e via alzando la posta).



La questione più calda riguarda attualmente il “bonus premiale”, previsto dai commi 126-130 della legge e visto come l’epitome di ogni male e la minaccia assoluta per la libertà della scuola e degli insegnanti. Cosa ci sia di così scandaloso in una norma che è pacificamente attuata da decenni in molti paesi, anche vicini per storia e cultura al nostro, non è dato comprendere: anche perché gli argomenti critici sembrano rinviare piuttosto a giudizi di valore formulati a priori che non a giudizi nel merito.



A chi scrive pare che la norma sul bonus sia, se mai, troppo timida nella sua formulazione: sia per la farragine procedurale che vi si sta costruendo intorno, sia per la modestia degli incentivi che potranno essere erogati. In ogni caso, essa rappresenta un primo passo nella giusta direzione: quella di contrastare la radicata indifferenziazione che ha contrassegnato il mondo della docenza negli ultimi quarant’anni.

Quella della cosiddetta “unicità della funzione docente” (se ed in quanto riferita ad un ipotetica uniformità del valore della prestazione professionale di ogni singolo) è una delle mistificazioni più clamorose che siano state affermate e diffuse fino ad oggi. E’ ben vero che tutti gli insegnanti vanno in classe, ma non è vero che: 



1) tutti lo facciano allo stesso modo. Ci sono materie scritte ed altre solo orali, c’è chi insegna in una sola classe e chi in nove; c’è chi svolge solo esercitazioni di laboratorio e chi fa lezione di fisica teorica: e via di questo passo. Ma — anche a parità di circostanze oggettive — c’è chi si prepara e si documenta ad ogni lezione e chi si limita a leggere il libro di testo in classe; c’è chi sperimenta nuove tecniche didattiche e chi ripete stancamente il ciclo spiegazione/interrogazione; chi riesce ad entusiasmare gli alunni e chi li annoia e li demotiva; chi si “tira dietro” la classe e chi ne è sopraffatto. Tutti quelli che vivono nella scuola sono testimoni quotidiani di queste differenze: perché stracciarsi le vesti se esse venissero finalmente portate alla luce? A chi giova tacere e rimuovere? 

2) tutti facciano solo docenza. Nessuna scuola può oggi “funzionare”, con i suoi numeri e la sua complessità, senza che una certa quota di insegnanti si assuma l’onere di “fare anche altro” rispetto alla propria docenza in classe: coordinatori di classe, responsabili di dipartimento, referenti dell’orientamento, promotori della formazione in servizio, ed altro ancora. In qualche caso, il loro impegno può essere quantificato in ore e trovare compenso nel Fis (Fondo delle istituzioni scolastiche): ma quando si tratta di un valore aggiunto di natura qualitativa, come altrimenti riconoscerlo se non con un “premio al merito”?

Inutile affannarsi a stilare tabelle, graduatorie, punteggi e decimali. Il merito ha questa caratteristica: là dove esiste, è visibile a tutti e non si lascia ingabbiare in parametri predefiniti. Quando ciò sembra possibile, quasi mai si tratta di “merito” e quasi sempre di “lavoro aggiuntivo”: che merita certamente un compenso in più, ma non un premio. Il primo è un riconoscimento alla misura del lavoro, il secondo alla sua qualità. E quindi, se è giusto cercare evidenze del merito, è illusorio individuare a priori criteri oggettivi: che in ambito valutativo semplicemente non esistono.

La legge dice già tutto, se non ci si ostina a farle dire quello che non ha detto: il dirigente assegna il premio, sulla base di criteri formulati dal Comitato di valutazione. Criteri, appunto, cioè supporti alla decisione: non tabelle minuziosamente descrittive, che elencano solo quello che tutti potrebbero fare. Per il resto, l’unico obbligo — ed anche l’unico limite — che la legge pone è quello di fornire una motivata valutazione per tutti coloro che si decide di premiare. Non si tratta in nessun caso di spiegare perché un premio non è stato dato a Tizio, ma solo perché è stato riconosciuto a Caio. Motivare in positivo è sempre possibile e difficilmente controverso: tutti sanno riconoscere il merito quando lo vedono. Motivare l’esclusione è molto più difficile ed opinabile: si tratta di fornire una sorta di probatio diabolica, il perché del non-essere.

E del resto, se si teme che questo finisca con l’appiattire nel tempo la scuola intorno al pensiero unico del dirigente, si dimentica che i criteri possono essere modificati da un anno sull’altro, sulla base dell’esperienza o anche solo per riconoscere qualità e meriti di natura diversa; ovvero, per tener conto di un contesto mutato in seguito ai cambiamenti del Pof triennale. Starà alla saggezza dei componenti del Comitato, ed all’equilibrio del dirigente stabilire la misura del cambiamento. Senza dimenticare che il dirigente sarà a sua volta valutato sul modo con cui avrà esercitato le sue prerogative. L’unica legittimazione del potere di valutare risiede da sempre nell’essere a propria volta valutati. Cosa che finora non è accaduta per i docenti. 

Il fatto che qualcosa cominci a cambiare in questo campo dovrebbe se mai rallegrare quanti considerano che la deontologia di chi vi opera è fondamento essenziale ed insopprimibile di ogni contesto formativo.