E’ interessante notare che ad approdi del genere sta arrivando l’elaborazione più matura della cultura laica. Il ritorno alla persona da parte del pensiero pedagogico e scolastico laico è l’effetto dell’affermazione nella modernità del principio di libertà. Nasce dalla consapevolezza dell’esaurimento del modello educativo euro-atlantico e degli esiti entropici del sistema napoleonico. A questi esiti hanno contribuito la fine del paradigma millenario della separazione tra otium e negotium, la fine del dualismo di istruire e educare, la percezione dell’astrattezza della distinzione tra l’homo cives e l’homo religiosus. Le dinamiche socio-economiche e culturali della globalizzazione hanno spezzato le separatezze: sapere e educare sono stretti in un nesso più tenace, perché il sapere arriva ad ogni persona da ogni lato, ne permea la vita quotidiana, si trasforma in esistenza, determina cambiamenti tanto della visione di sé-nel-mondo, quanto della prassi e della collocazione attiva nella storia. Il sapere diviene un’esperienza esistenziale. Come il sapere, anche l’educare è dappertutto. Di qui il principio di personalizzazione dei percorsi di istruzione/educazione. L’emergere della “persona” dietro il “cittadino”, della società civile dietro lo Stato, è dovuto non solo alla rivendicazione moderna estrema e spasmodica di una libertà individuale senza confini, ma anche al balzo in avanti delle conoscenze neuro-bio-psicologiche dell’essere umano, delle sue molte intelligenze, delle dinamiche emozionali e affettive, dei legami stringenti e non sempre afferrabili tra corpo, psiche, mente e delle relazioni fondative parentali. Un itinerario di istruzione/educazione medio, quale quello fornito dal vecchio e tuttora praticato modello organizzativo, si rivolge a tutti, ma a nessuno personalmente. Così, una scuola per tutti, che non sia anche una scuola per ciascuno, finisce per essere una scuola per nessuno.



Dagli Usa, alla Gran Bretagna ai Paesi del Nord-Europa, ai Paesi dell’Ocse, si è sviluppata una ricerca e sono state avviate riforme dei sistemi scolastici, che muovono in direzione della personalizzazione. Anche in Italia tanto la legiferazione di Luigi Berlinguer sull’autonomia con il DPR 275 dell’8 marzo 1999 — ripresa alla lettera nella legge 107/2015 (“Buona Scuola”) — quanto le proposte di Letizia Moratti sul portfolio e sul tutor, quanto la traduzione delle otto competenze-chiave europee nei quattro assi culturali di Fioroni, quanto la riduzione degli indirizzi di Maria Stella Gelmini, camminano in direzione di un’attenzione alla persona, nella consapevolezza crescente che il “buon cittadino” è solo la conseguenza della “buona persona”. Ma nessuna di queste riforme finora è stata in grado di rivoluzionare l’assetto dei programmi, della didattica, dell’insegnamento. Lungo i decenni si è costituito un solido blocco storico conservatore, nel cui cervello sociale si sono formati tre grumi-teoremi ideologici: 1. la paura ossessiva della privatizzazione/aziendalizzazione del sistema pubblico di istruzione; 2. l’egualitarismo burocratico e pauperistico; 3. l’assemblearismo proveniente dal ’68, che i decreti delegati del 1973-74 hanno addomesticato, regolamentato e trasformato in parlamentarismo.



E’ certamente uno strano paradosso che mentre nella scuola pubblica statale è in corso la guerriglia di innovazione, di sperimentazione, di audacia, di cui il movimento delle avanguardie educative è solo un piccolo esempio, la scuola pubblica paritaria non sia all’avanguardia di questi processi di innovazione/sperimentazione. Ci sono, si intende, notevoli eccezioni. Un giudizio più equo richiederebbe un’analisi caso per caso. La Fondazione Agnelli ha stilato delle classifiche, in cui alcune scuole paritarie stanno in vetta. Ma, complessivamente, si deve registrare una sorta di statalismo conservatore non involontario e ideologicamente subalterno di molte scuole paritarie.



Eppure, sulla carta esse dispongono di una libertà organizzativo-didattica che nelle scuola statale è bloccata dagli accordi sindacali. E’ noto che per legge il monte ore degli insegnanti è annuale. Ma i contratti prevedono che debba essere distribuito per 18/24 ore alla settimana, a sua volta tassativamente suddivisa in 5 giorni. Una tale rigidissimo assetto costringe nel letto di Procuste gli apprendimenti ed è la causa principale del disagio, della noia, della disaffezione degli studenti e della crisi degli insegnanti motivati, fino ai limiti di un crescente burn out.

La scuola paritaria, invece, dispone di una libertà, peraltro pagata a caro prezzo economico, che la scuola statale non riesce a praticare, quand’anche lo voglia; per farlo dovrebbe spezzare il duopolio amministrazione-sindacati che è il governo reale di ogni scuola. Nella scuola paritaria, questo duopolio non esiste. Ma funziona come se fosse stato introiettato.

A questo punto sono più chiare le ragioni della lenta caduta delle scuole paritarie. A chi chiede protezione socio-morale, sono in grado di offrirla solo nei cicli inferiori del sistema. A chi chiede innovazione/sperimentazione, al fine di motivare più profondamente i ragazzi a misurarsi con il sapere di civiltà, finiscono per offrire ad un certo costo ciò che molte scuole statali incominciano ad offrire gratis.

Se le paritarie cattoliche vogliono stare a galla e crescere, non hanno altra strada che quella dell’audacia dell’innovazione. 

(3 – fine. Leggi qui la prima e la seconda parte)