L’altra notte mi ha tormentato un incubo: andavo alla Cappella Sistina per vedere Michelangelo, e invece trovavo solo il Braghettone (quello che ha coperto le nudità dei personaggi michelangioleschi). Non c’era traccia di torsioni muscolari né dei braccioni di Dio o degli angeli o dei dannati. Solo mutande, fasce e foglie di fico. Un’enorme parete senza più i colori e il fascino di un Giudizio universale, ma col grigiore insensato di un falso attaccapanni. 



La mattina dopo sono corso a scuola, per sfuggire all’incubo. Che purtroppo lì, invece, si è materializzato: tutte le poesie e i romanzi erano imbraghettati dentro mutande di paragrafi. Avevo voglia di ridere con qualche commedia di Goldoni, ma pagine e pagine su Settecento, illuminismo e borghesia mercantile impedivano al sipario di aprirsi. Cercavo la sinfonia onomatopeica del Fringuello cieco di Pascoli, ma un bla bla bla sulla regressione nel nido non me la faceva ascoltare cchiù. Lo splendore lunare delle malinconie leopardiane era oscurato da una nuvola di aria fritta su pessimismi e titanismi, e una siepe di farneticazioni sulla natura matrigna escludeva il mio sguardo dall’infinito. Dante sì che mi avrebbe portato in paradiso, se tutte quelle note ai versi non mi avessero zavorrato «là dove ‘l sol tace». In un’ora soltanto avrei dato voce ai miei dubbi sull’educazione con gli Adelphoe di Terenzio, ma un pannolone di notizie sul circolo scipionico li avvolse per un mese. 



Il modo in cui viene trattata la letteratura a scuola si insinua ogni notte nei miei incubi, come una macchia d’olio che divora il mare. Sogno di comprare un cd per ascoltarlo e di venire invece assalito, mentre apro innocente il libretto dei testi, da un papiro interminabile, che mi spiega contesto storico, biografia, ideologia, genere musicale, e poi mi infligge pentagrammi da completare. Altre notti mi sento in preda a una fame sconvolgente: trovo un ristorante, entro e cerco dappertutto qualcosa da mangiare… ma su ogni tavolo sono apparecchiati solo libri di ricette, e in tutti gli angoli impazzano televisori con repliche di MasterChef. Un’altra notte mi sembra di scendere in campo, con le scarpe da calcetto: siamo pronti a iniziare, ma d’un tratto scompare il pallone. Gli altri improvvisamente si trasformano e si mettono a studiare La gazzetta dello sport; l’arbitro a quel punto mi interroga sulle formazioni del 1989-90. Al risveglio di solito ricompare il pallone. Anzi, se ne formano due. Nelle mie mutande. Giganti al punto che neanche il Braghettone saprebbe nasconderli.



In questo identico modo la scuola ha coperto tutti i capolavori dell’arte grazie a un esercito di braghettoni che pontificano su quel che non hanno mai osato guardare. Quanti insegnanti di lettere hanno letto integralmente non dico i sonetti di Jacopo da Lentini o Il franco cacciatore di Giorgio Caproni, ma almeno La divina commedia, lo Zibaldone, L’Orlando furioso, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore? E quanti non dico hanno letto, ma almeno possiedono una copia dell’Umorismo, del Fanciullino, del Giorno

Durante il periodo universitario mi sgomentava un altro incubo ricorrente. Sognavo di iscrivermi a Lettere, che gli anni passavano e che tuttavia non incontravo mai un verso di Dante né un capitolo di Manzoni né una poesia di Montale né un’ottava di Tasso né una novella di Boccaccio né un canto di Leopardi né una tragedia di Shakespeare. Fino alla laurea la realtà non smentì mai queste angosce notturne, e perciò iniziai a non dormire più, e a usare le notti per incontrare clandestinamente Petrarca e Pavese e Dostoevskij. I miei compagni invece a quell’ora uscivano, per smaltire i fondamentali corsi di dialettologia o di pedagogia dell’insegnamento che li avrebbero poi abilitati a sedersi in cattedra con un solo esame di letteratura alle spalle, preparato su un manualetto lungo appena un centinaio di pagine che sfornava pillole di letteratura italiana dalle origini al Cinquecento. 

Non so come dirlo, ai braghettoni così preoccupati di “fare” d’Annunzio e Ungaretti che sull’estetismo sciorinano sintesi orrende e sull’ermetismo appuntini incomprensibili, senza accorgersi di quanto li fanno odiare, così conciati, a ragazzi che non li saprebbero neanche immaginare nel fulgore del loro Piacere e della loro Allegria. Perché hanno tanta paura della bellezza delle poesie nude? A volte sogno un coro di studenti che intona «Ollèllè ollàllà faccela vede’ faccela tocca’» indicando La vita nuova o Il canzoniere di Saba. Ma il sogno sfuma, e la mattina i braghettoni tornano a chiudere Ulisse nel cavallo di legno di qualche trattazione sintetica, a distruggere l’Eneide per fedeltà agli estremi voleri dell’autore, a non avere tempo per il De brevitate vitae e a sacrificare il De rerum natura sull’altare delle chiacchiere sull’epicureismo (senza aver comunque mai letto, e nemmeno mai visto, i frammenti di Epicuro). Non parliamo poi dei Promessi sposi, svenduti per qualche riassuntino: “questo romanzo non s’ha da fare”. Mica potranno mai selezionare autonomamente un’operetta morale (ché solo La Natura e l’Islandese offre la casa, e chi diavolo è Farfarello?). Che ne sanno, quelli che perdono un mese a sproloquiare sulla doctrina callimachea dei neòteroi, che in due ore si legge tutto Catullo? Da loro non potrai mai aspettarti un ventiduesimo canto dell’Inferno, perché da anni “fanno” soltanto il I, il III, il V, il VI e il XXVI, come chi non ha il cd e può rifilarti solo i singoli che gli rifila la radio.

Hai presente quando entri nella Cappella Sistina e tanto ti spaventi di meraviglia che ti manca il fiato? Quel silenzio a scuola è soffocato da insopportabili audioguide, espertissime di foglie di fico. Perché, con la scusa di fornire gli strumenti, avete tanta voglia di censurare la bellezza nuda della letteratura? Beata età dell’oro, quando una sedicente saggezza non teneva le cose belle al riparo da occhi indiscreti! 

Vi fa tanta paura che un ragazzo semplicemente legga una poesia e gli scappi soltanto un “com’è bella”? Chissà se una notte un incubo assalirà anche voi… entrare in classe e trovare su una lavagna grande quanto la parete del Giudizio universale questa frase di Ungaretti marchiata a fuoco, tra squilli di angeliche trombe: «Vorrei dire insomma ai critici: “Parlateci una buona volta delle opere”. Davanti a un’appetitosa ragazza, dite voi: “Sei bella!”, o le chiedereste la descrizione delle peripezie di tutta la roba di cui ella s’è cibata, da quando scacazzava nelle fasce?».