Il periodico riordino delle carte seppellite in strati geologici sulle librerie e negli armadi consente talvolta di fare interessanti (ri)scoperte. Avevo completamente dimenticato di aver firmato, nel novembre del 2005, un “Appello all’educazione del popolo“: avrei invece dovuto ricordarlo, non solo perché citava le parole e gli insegnamenti del mio professore di religione del liceo, don Luigi Giussani, e nemmeno per il fatto che ne firmo pochissimi, ma quantomeno perché è ancora drammaticamente attuale, come ci attesta la cronaca di ogni giorno, ogni giorno di più. Non voglio, una volta tanto, deprecare la lentezza e l’ottusità delle istituzioni educative. Mi rammarico, piuttosto, che non si sia riusciti se non in pochi casi a tradurre in esperienze le parole dell’appello.  



L’emergenza educativa, si diceva, non solo mette a rischio la costruzione della persona e della società, ma è la spia di “una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli”: la capacità, o forse il desiderio, si è trasformata in rassegnazione alla propria impotenza, travestita da esaltazione della libertà dei figli di scegliere seguendo il proprio estro, senza alcuna gerarchia di valori. L’esito della sistematica vanificazione di ogni tipo di legame, di ogni convinzione o identità personale, inclusa quella di genere, non ha però  fatto crescere la libertà, ma ha generato noia, incertezza, angoscia e – per reazione – violenza e sopraffazione, facilitate dall’anonimato della rete o dalla diffusione di deliranti ideologie identitarie. 



La generazione “senza padri né maestri”, individuata nel 1980 da Luca Ricolfi e Loredana Sciolla, è diventata una generazione senza speranze e senza futuro. Non solo in novembre il Papa, nel suo discorso ai partecipanti  al Congresso “Educare Oggi e Domani. Una passione che si rinnova”, parlava dell’educazione come introduzione alla totalità, e dell’educatore come di chi si mette in gioco in prima persona per trasmettere ai ragazzi la capacità di dare un senso a quel che quotidianamente vivono, ma anche educatori, economisti, psicologi, sociologi di diverse provenienze  constatano preoccupati che ci stiamo giocando il futuro. Nel suo discorso al Consiglio di Stato portoghese, Mario Draghi ha parlato del rischio di una “generazione perduta”, una generazione che è “la più istruita di sempre”. Abbiamo fatto crescere l’istruzione, e l’esito paradossale è stato che più istruzione non solo non ha significato più felicità, ma non aiuta i giovani a diventare adulti. E’ come se, per guarire un malato, gli avessimo dato dosi crescenti di una medicina inefficace.  



Se è vero quel che diceva Romano Guardini, che noi insegniamo con quel che diciamo, con quel che facciamo e soprattutto con quello che siamo,  dobbiamo riprendere il grido che veniva dall’appello: occorrono maestri. Non insegnanti, non docenti, non Tfa o Pas o massicce assunzioni più o meno discutibili. 

Un maestro — termine che ha in sé la radice di “magis”, grande — accompagna i ragazzi “in una verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare e ad amare se stessi e le cose”. Prima ancora che al professionista ben preparato, che certamente serve, l’appello era ed è a chiunque è disponibile a confrontare la sua libertà con quella dei suoi alunni (dei suoi figli, di tutti i giovani).

Rileggo le firme apposte al documento: sono persone delle più diverse provenienze, qualcuno ha cambiato lavoro, qualcuno affiliazione politica, qualcuno non c’è più, ma in quel momento eravamo concordi nell’identificare un obiettivo e una strada. Sono stati dieci anni pesanti, e — per usare il claim di una nota radio — possiamo chiederci che cos’è oggi la normalità, e se è la stessa di dieci anni fa. Non lo so, francamente. So solo che se gli adulti non saranno capaci di dare delle risposte, sarà inutile fare delle riforme, investire del denaro, gridare “al lupo al lupo” contro le persone che riteniamo colpevoli dei nostri errori. Senza “la speranza di un significato positivo della vita”, non possiamo, temo, nemmeno condannare fino in fondo il terrorista che annienta se stesso e gli altri in una cieca opera di distruzione. Forse, ha solo portato agli estremi la lezione che gli hanno insegnato.