Il dibattito ospitato sul sussidiario, sul valore, il senso e lo scopo della scuole paritarie, con gli spunti sempre di alto livello di Giovanni Cominelli e la concretezza a cui si attiene Roberto Pasolini, proponendo di puntare lo sguardo al modello inglese, ha però bisogno di tenere in considerazione dati realistici ancora poco sviscerati.
Innanzitutto una questione di fondo: la scuola paritaria sta perdendo la partita. E’ in corso una rivoluzione sottotraccia che vede la chiusura di centinaia, se non migliaia di scuole, per cui alla fine del processo a rimanere in piedi saranno solo i grandi istituti (in genere legati agli ordini religiosi) con all’interno due, tre ordini di scuole e una cospicua disponibilità patrimoniale e finanziaria. Quando si affronta il tema delle scuole non statali bisogna anche conoscere quali sono i budget, che ogni scuola, intesa come azienda, deve raggiungere per sopravvivere. E’ un criterio di realtà che mai si deve sottovalutare.
Solo per dare alcune indicazioni approssimative, che non hanno la pretesa di essere esatte, una scuola dell’infanzia con tre sezioni necessita di circa 250-300mila euro l’anno, mentre una primaria con 5 classi all’incirca ha bisogno di un budget di circa 500mila euro. I costi ovviamente diventano più alti per secondaria di primo e secondo ciclo, con cifre che si avvicinano, per la prima a 400-450mila euro, e per la secondaria, in base agli indirizzi, dai 700mila euro in su. Ovviamente i costi si riducono se sono condivisi i servizi, come la mensa e gli uffici.
Una scuola può, poi, avere i conti in ordine se ha la possibilità di accedere a disponibilità aggiuntive, per emergenze strutturali, aggiornamenti normativi sugli impianti o per riduzione temporanea degli iscritti. Disponibilità che in genere hanno i grandi ordini religiosi o le reti di scuole o società che, offrendo anche servizi socio sanitari, alla bisogna possono investire sul settore scolastico, che come è noto produce utili poco rilevanti.
Se queste sono le grandezze, nel giro di un decennio moltissime scuole parrocchiali, quelle legate alle piccole associazioni, alle fondazioni e alle cooperative con scarso patrimonio, in particolare periferiche, sono destinate a chiudere. Il ridimensionamento colpirà un numero consistente delle oltre 13mila scuole paritarie (gli asili sono 10mila), e in particolare proprio quel 63% di ispirazione cattolica.
Per parlare di paritarie in modo meno accademico bisogna dunque spostare, innanzitutto, la riflessione dai principi alle risorse, le quali sono condizione indispensabile per la loro sopravvivenza. Ovviamente le scelte didattiche e l’innovazione vengono di conseguenza.
Lo stato, dicevamo, sta vincendo la partita e l’ultimo cappio a cui lo statalismo imperante, nella versione Renzi-Giannini, ha impiccato la scuola paritaria sono i fondi Pon (Programma operativo nazionale che su bando attribuisce fondi strutturali europei), da cui sono escluse le non statali. Questa esclusione significa la perdita dell’ultimo treno, in quanto innovazione tecnologica, interventi strutturali e progettualità didattica di qualità non potranno essere accessibili agli studenti delle paritarie.
Il re dunque è nudo, anche se in Lombardia o Veneto, grazie alle leggi regionali del periodo berlusconiano, la caduta dal paradiso può attendere. Tuttavia, solo per rimanere al Nord, in Liguria ad esempio, la situazione è molto differente e gli istituti che hanno chiuso i battenti sono già molto numerosi, come del resto in molte altre regioni italiane. Anche la nuova amministrazione di Giovanni Toti non sembra aver cambiato indirizzo e l’attenzione che il centrodestra dava alle opere sussidiarie sembra già svanita. Dunque c’è poco da aspettarsi anche dagli enti di governo intermedi e qualche risorsa in più può solo venire dalla stipula di convenzioni con i comuni.
Ma non è tutto qui. Infatti, mentre la nave affonda, i marinai litigano. Un contesto così critico richiederebbe l’unità, almeno di intenti da parte delle organizzazioni di settore. Purtroppo sta accadendo il contrario. Il percorso di rinnovo dei contratti nazionali iniziato nello scorso autunno sta avviandosi alla conclusione e Fism e Agiadae percorrono strade separate. Quest’ultima ha interrotto la trattativa con la Fism e ha firmato un accordo separato con Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola, a prima vista molto oneroso, che prevede un aumento lordo di 110 euro a regime, lasciando isolata la federazione delle scuole materne. Non è chiaro però chi pagherà gli aumenti contrattuali, visto che i bilanci delle scuole sono perennemente in rosso e ad esempio nel nuovo contratto si prevede che un dipendente del V livello avrà un aumento annuo di circa 1300 euro. Questa spaccatura mostra come la Federazione delle scuole materne sia un gigante d’argilla, diviso in correnti, spesso poco collegato alle federazioni regionali, mentre l’Agidae è una monarchia assoluta, che sembra vivere in un mondo dorato, anche se irrimediabilmente tramontato. Questo contratto potrebbe però trasformarsi in un boomerang e una fuga di molti gestori verso altri contratti come quello Aninsei, decisamente meno onerosi. E la Cei? Il silenzio dei vescovi italiani comincia a farsi sentire. Ognuno va in ordine sparso, con inattività diffusa o iniziative più o meno efficaci a sostegno della scuola cattolica. Per molti capi delle diocesi italiane le scuole paritarie sono un vero rompicapo, perché messe sotto scacco dalla crisi demografica, dalla riduzione radicale del numero dei religiosi e delle religiose e dalle difficoltà di gestione. Insomma anche il mondo ecclesiastico, che a parole sembra sostenere i gestori, nei fatti pare aspetti il collasso del sistema, in quanto sembra che si siano resi conto che la situazione, oramai, è insostenibile. E poi quale vescovo si potrebbe impegnare fattivamente per una realtà scolastica, quando in crisi ce ne sono decine?
Di conseguenza non ha tutti i torti chi sostiene che un’opera che non ha iscritti, o risorse, oppure abbia difficoltà nella realizzazione degli scopi statutari, è meglio che chiuda i battenti, perché, come recita l’adagio, a debito segue debito.
In questo contesto chi ha la forza di attuare l’innovazione e chi può competere con le istituzioni statali che offrono, come precisa giustamente Cominelli, “ad un certo costo ciò che molte scuole statali cominciano ad offrire gratis”? E l’autonomia post-ideologica rappresentata dal modello inglese, è sufficiente a rispondere alla situazione attuale e potrebbe essere accettata dallo statalismo burocratico, dal sindacalismo corporativo e da un’opinione pubblica catto-marxiana che vede ancora nel privato l’effige del demonio? Nella stampa e nell’opinione pubblica italiana scuole private, petrolieri e lobbies varie non sono forse messe sullo stesso piano? E dunque cosa proporre? Come uscire dall’immobilismo del tiriamo a campare, aspettando nuovi cieli e terra nuova?
Bisognerebbe arrivare a una sorta di deadline, con punti irrinunciabili condivisi da chi vive la scuola non statale ogni giorno. Forse un movimento dal basso, dalle scuole stesse, dai docenti, dal personale, da tutti quei sacerdoti e religiose, dai tutti i laici impegnati spesso a titolo gratuito, dalle famiglie che riconoscono un valore nella scuola frequentate dai propri figli, dalle migliaia di gestori che quotidianamente arrancano tra un adempimento burocratico e una fattura da pagare, da tutti loro può nascere un movimento di opinione che richieda l’attenzione a un mondo visto con ostilità.
Questo movimento di gente potrebbe sostenere a partire dalla testimonianza personale, e non dalla rivendicazione, alcune richieste semplici. Un milione di studenti con una base sociale molto più ampia può permettersi di chiedere che il budget dei contributi statali annuali raggiunga almeno il 2% della spesa per la scuola statale, visto che oggi — come ha sostenuto Cominelli — è al 1,2%. Inoltre, secondo i suggerimenti di Roberto Pasolini l’avvio “di pari trattamento fiscale (Imu) e territoriale (Tari), così come il contributivo (Inps) per statali e paritarie”. Poi l’accesso ai bandi per i fondi Pon da parte di tutte le scuole paritarie e infine l’intervento dei vescovi per favorire la stipula di convenzioni con gli enti locali là dove siano assenti. Una sorta di piccolo cahier de doléance per non far tramontare una grande realtà ricca di socialità e che permette alla sussidiarietà di non essere un principio enunciato solamente sui manuali.