Secondo di due articoli. Leggi qui la prima parte (ndr).
L’economia del nostro paese si è sempre retta sulla piccola e media industria, dove la capacità di adattarsi alle diverse situazioni è sempre stata la forza della nostra produzione. Gli elementi che compongono queste unità produttive sono tutti elementi analogici, in grado di modificare il proprio comportamento in completa autonomia. Il nostro sistema di istruzione, dalla scuola materna all’università, è sempre stato funzionale a questo sistema. Preparazione generalizzata, valide componenti di cultura di base con uno spettro di conoscenze estremamente ampio. Semplificando, questo sistema ha dato la possibilità alle generazioni del dopoguerra di prosperare basandosi su un fattore antropologico-culturale tipicamente italiano, segnato dall’adattamento e dalla capacità di interpretare la realtà fattuale. Tale sistema di istruzione ha dato anche la possibilità di sviluppare un settore della ricerca ricco di idee e di innovazioni a fronte di una spesa decisamente limitata.
Poi trent’anni fa ha cominciato a svilupparsi un sistema di comunicazione che ha rivoluzionato i rapporti economici e sociali. Una rivoluzione che ha solo paragoni nella scoperta del fuoco o nella rivoluzione industriale. L’introduzione di internet nella vita di tutti i giorni e dello stato del “perennemente connesso” ha avuto un’evoluzione lampo, frantumando tutti i sistemi di relazioni sociali professionali e comunicativi tradizionali. Questo sistema veloce di circolazione delle informazioni ha portato di fatto alla globalizzazione, abbattendo man mano barriere fisiche, linguistiche e produttive. La tendenza della globalizzazione è quella di trasformare i sistemi analogici in rapporti digitali costruendo corpi economici sempre più grandi ed efficienti al cui interno specializzazioni estreme sono coordinate da un continuo scambio di informazioni che modificano momento per momento le attività, adeguandosi alle esigenze contingenti e del breve periodo. Per fare in modo di avere questa flessibilità sono necessarie elevata precisione nello svolgimento dei compiti, estrema mobilità e rapida sostituibilità con possibile scambio di ruoli.
In questo quadro il nostro Paese ha ricevuto un colpo mortale alla sua organizzazione. Il successo del “Made in Italy” era garantito da piccoli nuclei “analogici” che presentavano un prodotto fatto da pezzi unici. Dal punto di vista linguistico eravamo probabilmente il paese più arretrato d’Europa con una bassa percentuale di alfabetizzati in una lingua straniera e in particolare in inglese. Le grandi industrie che cercavano di digitalizzarsi si scontravano con un’organizzazione del lavoro cristallizzata i cui componenti non erano né altamente specializzati, né assolutamente flessibili — ma solo relativamente — flessibili. Nello stesso tempo, non c’è stata alcuna valutazione di questo cambiamento epocale in modo da preparare il tessuto sociale al nuovo quadro economico che si andava formando.
In questo una delle principali mancanze è stata l’adeguamento del sistema formativo italiano. Il sistema accademico in particolare, per motivi interni ed esterni, non è stato in grado di evolversi, mantenendo un metodo di organizzazione del lavoro e di impostazione formativa nel complesso arcaico con delle dinamiche che non hanno minimamente tenuto conto che la trasformazione in atto avrebbe cambiato radicalmente il rapporto docente-studente.
Occorreva passare da un insegnamento unicamente nozionistico in cui l’informazione era gelosamente conservata dall’accademico o in supporti di difficile accesso, ad un sistema di sviluppo del pensiero che sfruttasse l’enorme apporto di informazioni proveniente dalla rete e incanalarlo in un processo mentale di elaborazione innovativa. Si è preferito modificare la forma per adeguarsi agli standard internazionali senza operare un salto di qualità nella sostanza. Gli studenti generalisti sono continuati ad uscire ma, a differenza di prima, senza una solida cultura di base. L’aggravante ha riguardato l’essere stati investiti da corsi spezzettati dove le informazioni erano meno complete di quelle disponibili in rete e unicamente utilizzate per selezionare. Selezione che non riusciva ad intercettare i più preparati ma in gran parte solamente chi era mnemonicamente capace.
La scuola superiore italiana che precede la formazione universitaria, quindi fulcro delle basi del processo formativo per future professionalità della nostra società, è stata coinvolta negli ultimi anni in continui processi di cambiamento organizzativo anche con approcci di integrazione delle tecnologie informatiche nella didattica delle differenti discipline. In minima parte sono state superate rigidità organizzative e consuete interazioni formative docente-studente. Efficaci azioni didattiche si verificano quando l’evoluzione è percepita come necessaria dal docente che propone approcci metodologici che non si limitano a seguire percorsi tracciati da altri, ma che propongono in modo creativo innovatività integrata. Non dunque innovazione digitale come pura applicazione di nuove tecnologie informatiche, la così definita “digitalizzazione”, ma come insieme di azioni complesse che rappresentano un’opportunità per migliorare le relazioni formative con gli studenti e i contatti di confronto con il mondo culturale internazionale.
Una scuola progressivamente più coinvolta in processi di digitalizzazione dei saperi dovrebbe forse attuare una digitalizzazione non esecutiva senza schemi predefiniti, ma pensata ed integrata da docenti nella specificità dei singoli contesti. Una digitalizzazione integrata in modo efficace nelle strategie didattiche che dovrebbe necessariamente trovare un successivo contesto accademico molto aperto a continuare il dialogo nel cambiamento, anche organizzato in sinergia tra docenti di ambiti differenti di scuola e università, potenziali strateghi ed autori di un vero futuro cambiamento nella cultura della formazione.
Il rischio di non condividere percorsi formativi, di fare prevalere a differenti livelli la parcellizzazione culturale, che non aiuta ad individuare connessioni tra differenti discipline, è quello di produrre masse di laureati incapaci di una qualsiasi elaborazione del pensiero, in contrasto con chi coltiva comunque l’uso della mente per conto proprio e che si rivolgerà sempre più ad altri motivanti scenari, principalmente esteri.
In pratica l’Italia, caratterizzata da un sistema di istruzione e produzione decisamente analogico, ha subìto la globalizzazione in tutti i suoi settori senza modificare le strutture portanti del sistema. Come tanti fenomeni che hanno attraversato il nostro paese dal dopoguerra a oggi, non si sono prese delle decisioni strategiche di alcun tipo ma solo momentanei adeguamenti.
Si è cercato di sovrapporre un’organizzazione digitale lasciando sullo sfondo un sistema analogico. Si è così riusciti a creare una situazione devastante per il nostro tessuto sociale promuovendo la specializzazione in settori non comunicanti fra loro. Contenuti estremamente specialistici, attività differenziate proposte in numero sempre più elevato anche nelle nostre scuole superiori, iniziative di ogni tipo che dovrebbero probabilmente essere sempre opportunamente selezionate e inserite in percorsi culturali ideati in coerenza con uno specifico progetto di crescita culturale.
Il rischio è di non proporre un’efficace formazione culturale caratterizzata da apprendimenti costruttivi, aperta anche a rigorosa selezione ed utilizzo di informazioni presenti in rete, rendendo i saperi di base frammentati, non aiutando quindi le giovani generazioni a comprendere in modo profondo nessi e relazioni tra di essi. Non serve dunque la ricerca di una forzata modernità nella didattica digitale, ma una “innovazione metodologica ragionata” che permetta una comunicazione tra differenti realtà, senza minare alle radici la nostra unicità e potenzialità di essere umani nell’operare scelte. Nel nostro mondo della formazione manca probabilmente un’educazione a superare diffusi individualismi strutturali di base, non considerando che il vero fare cultura dovrebbe guidare al piacere della condivisione, al continuo confronto, alla ricerca di intenti comuni per raggiungere obiettivi di reale significato per tutti, senza necessaria e predefinita priorità di ruoli per non coltivare semplici formalismi.
Questo non è il luogo per discutere se per l’Italia sia meglio un sistema piuttosto che l’altro. Certo che un ibrido tra i due ha fatto danni probabilmente irreparabili e sicuramente curabili solo con una drastica terapia. Oltre alle due generazioni già perse, se mai si avrà il coraggio di definire una strategia per il nostro Paese, si dovrà mettere in conto almeno altre due generazioni per indirizzare la nostra società ad uno sviluppo più armonioso. In un mondo globalizzato l’unicità è un bene preziosissimo. E noi abbiamo tutte le potenzialità per operare un nuovo Rinascimento.
(2 – fine)