Finalmente, lo possiamo dire, si parte. Prende avvio il carrozzone del concorso scuola riservato dei docenti, con 165mila partecipanti per oltre 63mila posti a disposizione. Se sommiamo, poi, questi 63mila ai 100mila immessi in ruolo lo scorso autunno, non c’è che dire, una bella infornata.
Restano le domande, per lo più senza risposta, rispetto — appunto — a questa “infornata”.
Domande, ad esempio, sulla qualità della selezione, sulla sua funzionalità nei confronti dei bisogni reali della scuola di oggi, sul modello assistenzialistico che continua a governare il sistema formativo italiano.
Le scuole tutte, sede d’esame, si stanno attrezzando come possono, con i loro laboratori ed i docenti delegati, per garantire la funzionalità e la trasparenza delle prove d’esame. Una gran fatica.
Una cosa è certa: in questa situazione è quantomeno difficile, vista la grande macchina concorsuale, riconoscere il principio base della società odierna. Cioè la centralità della persona, della risorsa umana, come si suol dire. Difficile. Soprattutto se continuiamo a subire il dominio della presunta equità degli automatismi concorsuali, delle graduatorie di istituto, distinti e distanti dalla vita reale, che richiede a un servizio qualità, non quantità.
Perché questo ci dice la vita reale: le persone vanno valutate e valorizzate per le loro competenze, passioni, disponibilità, oltre alle conoscenze di base delle proprie discipline. Cioè soft skills, e non solo hard skills.
E la scelta — o selezione — delle persone, lo sappiamo bene, è il cuore di tutto. Ma per scegliere, secondo pari opportunità, si deve partire dalla “cultura dei risultati”, non delle “intenzioni”, come è stato sino ad oggi. E la cultura dei risultati, la stessa che noi, poi, chiediamo e pretendiamo per qualsiasi altro servizio, pubblico o privato, richiede, oltre le consuete certificazioni di base, una valutazione/valorizzazione della professionalità mostrata sul campo, cioè nel lavoro e nella vita di tutti i giorni.
Se questo è vero, la vera grande riforma, fondamentale per dar vita alla “buona scuola”, è togliere allo Stato il monopolio della gestione delle professionalità necessarie al “servizio pubblico scolastico”, togliere cioè la selezione di tutto il personale. Per consentire alle scuole, o alle reti di scuole (come i previsti “ambiti territoriali”), di bandire i posti per docenti iscritti all’albo, quindi con le adeguate certificazioni. Con commissioni formate da presidi, docenti e dsga delle discipline coinvolte.
Il vero limite che genera la reale precarietà di questo concorso sta, invece, nel non aver compreso che il cuore della vita della scuola è proprio la valutazione: degli studenti, come di tutti gli operatori. Puntualmente, infatti, anche in questo concorso la parte più trascurata, se non marginalizzata, è quella della valutazione. Perché mai, da presidente di commissione regionale dell’ultimo concorso, dovrei mettermi a disposizione per una nuova commissione, con le responsabilità che conosciamo e con i miseri riconoscimenti economici che sappiamo? — nonostante il recente piccolo adeguamento.
In qualsiasi concorso la parte più delicata, e qualitativamente significativa, è rappresentata proprio dalla commissione che valuta. Senza incentivi concreti finisce che dichiarano la propria disponibilità solo i cirenei, oppure coloro che vogliono mostrare se stessi. Perché negarlo?
Anche questo concorso parte, dunque, col piede sbagliato. Perché, se la valutazione è il cuore, i valutatori sono la parte più sensibile, che va curata e incentivata prima di ogni altra cosa. In altri termini, la qualità della selezione è direttamente proporzionale alla qualità dei selezionatori. Come nella scuola reale, la qualità dell’insegnamento è direttamente proporzionale alla qualità dei docenti.
Vi è, poi, un altro aspetto che va sottolineato. Parlo della riaffermazione, in atto, della centralità burocratica dello Stato, quindi del ministero, nei confronti dell’autonomia delle scuole. Le quali sono sempre più considerate solo propaggini periferiche dell’apparato ministeriale, il quale, con le sue circolari o accordi con i sindacati, di fatto ha cancellato ogni residuo di autonomia delle scuole, le quali si trovano in prima linea a gestire complessità che il centro burocratico nemmeno conosco o intuisce.
E qui viene il punto-chiave: qual è la fonte del diritto, in questo caso, dell’ambito scolastico? E’ cioè lo Stato o sono le persone? O lo Stato non dovrebbe, piuttosto, come proprio compito, regolare le modalità del diritto? Domanda impossibile, oggi più di ieri.
Un esempio di questo centralismo ministeriale? L’ordinanza sulla mobilità, la quale, secondo la lettura sindacale (addirittura) correggerebbe le “storture della legge 107”. Altro che “certezza del diritto”!
Anche qui è chiaro il cambio di marcia che dovrebbe caratterizzare la vita della scuola italiana, con la crisi evidente della contrattazione unica nazionale e la distinzione, piuttosto, tra livello nazionale minimo e disponibilità a valorizzare/valutare le professionalità con contrattazioni decentrate.
Perché i contratti di lavoro non vincolano le persone, ma solo le loro professionalità. Il modello assistenzialista, in poche parole, oggi non tiene più. Non solo: è la prima forma di ingiustizia che incontrano i nostri giovani in gamba.
In sintesi, anche attraverso la vicenda del concorso nazionale dei docenti, come quello prossimo dei presidi, si comprende come in realtà la “buona scuola” andrebbe ripensata da capo, questa volta secondo una logica sussidiaria, non più centralista. Con un servizio di valutazione in grado davvero di funzionare, valutando e giudicando servizi, competenze e professionalità secondo parametri condivisi.
Le scuole, in poche parole, vanno ripensate come “scuole delle comunità locali”, con Pof territoriali, logiche di campus e servizi affidati agli enti locali, gli stessi che poi devono farsi garanti della qualità anche di questo servizio pubblico, con adeguate forme di customer, secondo sistemi di qualità Efqm, in relazioni a finalità e obiettivi chiari e raggiungibili. Il rischio “amici degli amici” o disfunzione dell’ente locale? Perché avere paura delle contraddizioni? Se ci sono, è bene che esplodano, in modo da far ripartire “dal basso” nuove domande di giustizia e di equità.
Chi vive la vita delle scuole, queste cose le sa. Tutto il resto è noia.