Da qualche mese è in corso in Italia una poderosa azione per migliorare le scuole italiane. Si tratta di un’azione meritoria; purtroppo — come spesso accade nel nostro Paese — molto affidata alla buona volontà, senza disponibilità di adeguate risorse economiche e senza riscontri e neppure sostenuta da un’idea abbastanza condivisa di miglioramento. I progetti pilota (interessanti e positivi) attuati negli anni passati non hanno eliminato la sensazione che anche il miglioramento è cascato sulle scuole senza adeguata preparazione. Gli schemi messi a disposizione delle scuole possono aiutare pigri e inesperti, ma non basta soddisfare un adempimento e segnalare qualche buona intenzione per dire di aver predisposto un buon Piano di miglioramento.
Da qualche parte bisogna tuttavia cominciare e meno male che si è cominciato. Il resto verrà dopo se, com’è auspicabile, l’azione di miglioramento non resterà un’esperienza episodica.
Il principio del miglioramento scolastico è una conseguenza degli sforzi avviati fin dagli anni 80 del secolo scorso (a livello europeo; da noi, più tardi) per assicurare ai sistemi scolastici e formativi la qualità necessaria per far fronte a nuove e antiche esigenze. Una forte spinta è venuta, in particolare, dai sempre più stretti rapporti tra formazione e lo sviluppo economico e dal proposito di ottimizzare i costi scolastici. Sulla scorta di criteri per lo più mutuati dal mondo aziendale, in specie dalle teorie manageriali e produttivistiche delle organizzazioni, sono stati fissati alcuni criteri qualitativi e, a valle di questi, è scaturito il bisogno del miglioramento.
Le valutazioni a largo spettro hanno dato certezza a quanto già si sapeva in forma occasionale e cioè che un certo numero di istituzioni scolastiche non raggiunge risultati soddisfacenti. In alcuni paesi il miglioramento delle scuole critiche è diventato un passaggio politico scolastico. Da noi c’è un certo pudore a parlarne. Sarebbe però miope pensare che soltanto le scuole mediocri debbano migliorare. Lo spazio di miglioramento è generale. Esso è infatti legato alla mobilitazione del patrimonio di “risorse professionali latenti” presenti in ciascuna scuola. Quando, in seguito a varie motivazioni, esse sono attivate, producono esiti interessanti. Anche una scuola di eccellenza può, dunque, migliorare.
Come dunque definire il miglioramento? In modo alquanto schematico e piuttosto generico si può dire un’azione volta ad assicurare prima di tutto coerenza tra l’attività educativa degli insegnanti e i bisogni degli allievi e, in funzione di questa coerenza, colmare eventuali deficit professionali o organizzativi, e rendere più incisiva l’azione della scuola nelle tre fondamentali dimensioni dell’apprendimento, della trasmissione culturale e della formazione personale.
Questa idea “personalistica” di miglioramento cadenzata sullo studente non è molto diffusa nella letteratura sulla qualità scolastica e sul miglioramento. Il neutralismo pedagogico e politico dei nostri tempi preferisce letture di altro tipo: manageriali, economiche, sociali, meritocratiche, insomma letture ad impostazione funzionalistica.
È questo lo sfondo culturale nel quale si pongono gli apporti migrati da noi copiosamente negli ultimi anni dal mondo anglosassone nel quale prevale, in genere, una concezione di qualità scolastica e di miglioramento pragmatica, molto dettagliata e strettamente vigilata dalle autorità scolastiche con protocolli prescrittivi e procedure standardizzate. Nei casi di ripetuti risultati giudicati insufficienti sono attuate iniziative di sostegno predisposte dall’alto. Nelle ipotesi estreme, come è risaputo, è addirittura prevista la chiusura delle scuole le cui performance sono ritenute inadeguate. Volendo sintetizzare con poche parole questa tendenza si potrebbe dire che “le procedure messe in atto dal sistema sono garanzia di qualità anche per le persone”.
In altri casi — come accade in Italia e in quelle realtà ove prevalgono logiche “riflessive” più che procedurali — il miglioramento è affidato all’iniziativa gestita “dal basso” da dirigenti e docenti (in taluni casi anche coinvolgendo soggetti terzi come le famiglie). Le azioni previste per “migliorare la scuola” puntano in questo caso all’innesco di processi virtuosi come, per esempio, l’intreccio tra i dati offerti dalle valutazioni di sistema con gli esercizi di autovalutazione interna, la capacità di “situare la scuola” nel contesto socio-ambientale e di favorire iniziative d’intesa con il territorio, il potenziamento del capitale professionale, la valorizzazione della leadership educativa, il rispetto per la cultura locale. Volendo anche qui ricorrere ad una rapida definizione si potrebbe dire che “la qualità della scuola è strettamente associata e affidata alla capacità di gestirla da parte di chi ne fa parte”.
In entrambi i casi è prevista la presenza di figure di accompagnamento, ma con caratteristiche alquanto diverse. Nel primo caso il tutor agisce direttamente nella scuola, sulla sua organizzazione e sul dirigente — quasi sempre disponendo di risorse appositamente destinate —, in certi casi addirittura sostituendosi (come se si trattasse di una forma commissariale) alla dirigenza. Nel secondo caso il tutor svolge principalmente due compiti, 1) concorrendo alla individuazione dei problemi e suggerendone le possibili soluzioni (lasciando comunque alla scuola la libertà di agire in proprio) e 2) affiancando per un certo periodo il percorso di miglioramento.
Diversi appaiono anche gli atteggiamenti verso l’esito del miglioramento. Nei casi pilotati “dall’alto” sono le stesse autorità a certificare il raggiungimento o meno dei risultati prefissati da appositi standard. Nelle prassi che puntano alla mobilitazione delle risorse “dal basso” l’accertamento del miglioramento si configura operazione più complessa perché — per lo meno in via di principio — ciascuna realtà scolastica è un unicum rispetto a cui è difficile stabilire griglie prescrittive di valutazione (al più di può parlare di tendenze al miglioramento).
Dal punto di vista della centralità dello studente — quello che dovrebbe essere il punto di osservazione privilegiato perché la scuola prima di essere una organizzazione da rendere efficiente è un’istituzione educativa di persone per le persone — entrambe le strategie sono accomunate da una certa trascuratezza.
Sia pure con modalità molto diverse, il focus è infatti centrato nell’uso e nell’altro caso sugli aspetti funzionali e organizzativi. Scarso spazio nelle prassi migliorative hanno interrogativi oggi ricorrenti non solo in ampia parte della letteratura pedagogica e psicologica (che in materia di miglioramento potrebbe fornire molte suggestioni), ma vissute in presa diretta dalle famiglie e dai ragazzi che vanno a scuola con la testa nello smartphone e spesso convinti di partecipare a un’esperienza che “non serve”.
Qualche esempio: quale rapporto tra la realtà scolastica quotidiana e le pratiche di insegnamento/apprendimento (detto in altro modo: perché studiare?), come rispondere al cambiamento culturale in corso (il dibattito sulla cultura scolastica appare oggi residuale), come gestire la relazione adulto-studente (non credo che la scuola possa ridursi a un luogo di semplice socializzazione), quale senso attribuire allo sforzo e all’esercizio della volontà, come razionalizzare l’impiego dei nuovi strumenti della comunicazione?
Se tra i tanti indicatori necessari per stendere il Piano di miglioramento non includiamo anche questi interrogativi primari è come se si mirasse a costruire un sistema perfettamente funzionante senza tuttavia i chiedersi a cosa esso realmente serva. Soltanto a preparare lavoratori e consumatori perfettamente addestrati?