E anche per quest’anno è fatta, le iscrizioni alle scuole superiori si sono chiuse a febbraio, e iniziano ad arrivare i risultati. In attesa di quelli nazionali, osservo i numeri provvisori del Veneto, regione in cui insegno, e, come un aruspice, cerco di trarre auspici scrutando le viscere dei dati statistici. Si conferma quella liceale la prima scelta, in lieve aumento rispetto allo scorso anno, e sempre attestata sul 40% del totale; tra i diversi indirizzi liceali, in Veneto pare che si registri una nuova, lieve avanzata del classico, una sensibile perdita del Linguistico, un saldo sostanzialmente invariato dello scientifico, con un travaso dall’indirizzo tradizionale all’opzione delle scienze applicate.
Potrei continuare, ma, come ben sa chiunque abbia seguito un dibattito tra politici dopo l’uscita dei risultati di una qualsiasi elezione, i numeri sono interpretabili, e forse in ultima analisi scivolosi. Mi piace, invece, pensare che dietro ad ognuno di quegli zero-virgola c’è un ragazzo o una ragazza di tredici anni, con una scelta sulle spalle carica di incognite; ci sono dei genitori colmi di aspettative, di speranze e di paure per l’inizio di un percorso che, si sa, nel bene e nel male definirà, o almeno contribuirà in modo sostanziale alla storia relazionale, formativa e professionale dei loro figli.
Da un paio d’anni seguo da vicino le attività di orientamento in ingresso nel liceo in cui insegno: accoglienza delle famiglie, laboratori, ospitalità in aula per qualche mattina degli studenti di terza media. Lo confesso, a volte mi sono sentito molto simile all’agente di concessionaria che mi ha venduto la mia ultima automobile: serio, disponibile, competente, ovvio, ma alla fin fine mi restava il dubbio che, almeno un po’, stesse cercando di imbonirmi, e di presentarmi la mia futura utilitaria (che amo molto, beninteso!) come il migliore dei mondi possibili. E invece, si sa, ogni scuola, un po’ come ogni famiglia, ha le sue magagne, che si parli di aule poco illuminate o con le pareti che perdono l’intonaco, piuttosto che di laboratori informatici con un numero inadeguato di postazioni, o ancora (ma qui si entra in un discorso più ampio) di organico docente che viene completato ad anno ampiamente iniziato, complici i concorsi, i potenziamenti, le lungaggini che paiono purtroppo connaturate al mondo dell’istruzione pubblica.
In effetti quando si parla di scelta della scuola superiore ogni famiglia rischia di trovarsi sommersa di volantini e opuscoli, di tabelle e grafici, che illustrano le discipline e il monte orario, o dimostrano quanto successo abbiano in media gli studenti una volta usciti da quel tale istituto. Purtroppo, invece, a fianco di queste valutazioni, ovviamente necessarie e utili, si sa, o almeno si dovrebbe sapere, che esiste un’altra, pesante incognita che grava sul futuro destino degli studenti: i docenti.
Tutti coloro che hanno una memoria scolastica sanno bene di cosa parlo: al di là del liceo o del professionale o del tecnico a cui ti eri iscritto, bisognava anche fare i conti con l’insegnante che “ti capitava”. Perché c’era quello severo, quello che lasciava copiare, quello che non interrogava mai, quello che “bisogna portare pazienza perché tra un po’ va in pensione”. L’elenco potrebbe continuare. Da quando, dopo la laurea, ho iniziato a confrontarmi con il mondo della scuola dal punto di vista dei docenti, subito ho sentito parlare di merito, di necessità di incentivo delle professionalità, di misure in grado di sanzionare, se non di fermare, gli insegnanti che, per vari motivi, non rispettano gli standard formativi previsti.
Dirò di più: ad oggi devo ancora incontrare un collega che si dica contrario all’introduzione di una qualche forma di meritocrazia nella scuola. Nel frattempo sono passati 14 anni, e ora siamo qui a cercare di capire in che modo il “bonus docenti” previsto dalla “Buona Scuola” sarà erogato dai singoli istituti.
In pratica ravviso un paradosso, alla base delle scelte che devono fare le famiglie degli studenti che si apprestano a iniziare il percorso delle superiori: da un lato gli si vuol dire quali siano le scuole buone e quelle meno buone. Ma d’altra parte ad oggi non siamo in grado di dire chi siano i docenti buoni e quelli meno buoni. Ci si arrampica sulle strutture scolastiche e sui risultati in uscita, ma sappiamo bene che una bella aula e un bravo studente non fanno un bravo docente.
Tornando all’esempio automobilistico di prima, se il motore della mia utilitaria si guasta e devo andare dal meccanico, poco mi interessa sapere quanto grande è l’officina, o quanti strumenti all’avanguardia ha. Voglio sapere se i meccanici che ci lavorano sono bravi, onesti, fanno un preventivo, rispettano i tempi.
Nel mondo della scuola, invece, pare che una sorta di fatalismo rinunciatario regni tra le famiglie: si sa che le cose possono andare bene, si sa che le cose possono andare male. Si incrociano le dita, si chiudono gli occhi, e si va avanti.
In attesa di un codice deontologico del docente, in attesa di criteri di valutazione interni ed esterni (i percorsi sperimentali già si sono fatti in molti istituti, e i modelli dall’estero da cui prendere spunto non mancano certo!) che permettano alle famiglie di leggere con trasparenza i livelli di professionalità che una scuola può esprimere, in attesa (mi spingo troppo in là?) di strumenti che permettano ai dirigenti di agire con efficacia nell’affiancamento, nella formazione in itinere di docenti che abbiano evidenziato lacune, tanto quanto di premialità di docenti che abbiano dimostrato capacità professionali elevate, cosa resta da dire alle famiglie dei ragazzi che hanno appena scelto o sceglieranno nei prossimi anni il loro percorso di studi?
Il primo suggerimento è, per quanto possibile, di fare scelte in positivo. Il nuovo percorso dovrebbe essere intrapreso perché il ragazzo “si sente bravo” o almeno si sente portato a un ambito disciplinare. Non, dunque, fare il classico “perché c’è poca matematica”, ma “perché mi piace l’italiano”. Già dietro a questa prima modalità di scelta c’è un passo molto importante che le famiglie e gli insegnanti della secondaria di primo grado dovrebbero compiere con i loro studenti: riconoscere che in ogni persona esiste un ambito di eccellenza che va scoperto, e promosso.
Il secondo suggerimento, strettamente legato al primo, è di non cadere nella tentazione, in fin dei conti ancora gentiliana nella sua matrice, di guardare alle scuole superiori come a una piramide: al vertice sta il classico, al gradino inferiore lo scientifico e via di questo passo. Quanti errori, anzi, quanti disastri formativi ed educativi si sono fatti in nome di questo “razzismo scolastico” purtroppo ancora vivissimo nelle nostre aule! La famiglia che nutre buone speranze o alte aspettative per il proprio figlio, esige da lui il percorso liceale, perché, nella vulgata, “dai licei escono i futuri quadri della società”, posto che questa frase abbia ancora un senso, alla luce dei recenti mutamenti del mondo della formazione e del lavoro. Chi insegna sa bene che ogni tipologia di studente che mediamente si incontra in un indirizzo di studi ha dei punti di forza e dei punti di debolezza. E, giusto per fare un esempio scomodo, spesso e volentieri gli studenti liceali si segnalano per grande capacità di studio e di concentrazione, sono molto bravi a fare ciò che viene detto loro di fare (ebbene sì, ancora oggi la “didattica imitativa” è molto diffusa nelle nostre aule!), ma sono passivi: poche domande, pochi “attacchi” al docente, poca critica alla realtà. Forse una volta era questo che la società chiedeva ai futuri quadri: imitare chi è venuto prima di te, e non fare troppe domande. Ma oggi, per fortuna, non è più così. Quindi, ancora una volta, se in tredici anni un genitore ha avuto modo di vedere quali sono gli ambiti della realtà che fanno brillare gli occhi ai propri figli, abbia il coraggio di spingere verso quella direzione, quale che sia.
Ultimo suggerimento: non guardare troppo alle prospettive occupazionali, ma a ciò che piace “qui e ora”. Fare intraprendere a un quattordicenne un percorso di studi nei confronti del quale non prova particolare motivazione, con l’unica ragione che “poi si trova lavoro”, comporta un doppio rischio: in primo luogo, ovviamente, il ragazzo inizierà a frequentare una scuola che non gli piace e, peggio ancora, per una scelta non sua, ma in qualche modo imposta e guidata dai genitori o dagli insegnanti. In secondo luogo, la variabilità del mercato del lavoro anche nel brevissimo termine rende abbastanza aleatori questi ragionamenti: i settori che oggi “tirano” tra cinque o sei anni potrebbero essere saturi, e viceversa.