Adesso che è passato si può dire: il 25 aprile è una data molto importante per il popolo italiano.
In quel giorno ci siamo buttati alle spalle vent’anni di regime fascista e abbiamo ottenuto la libertà, che per noi ragazzi è qualcosa di fondamentale, è una ragione di vita. Questo giorno, però, non è da ricordare solo per la vittoria ottenuta sul fascismo, è da ricordare soprattutto per le tante vite andate perse in guerra, vite che per molte famiglie erano sacre. E quindi noi, ragazzi di 15, 16, 17 anni che quel periodo storico non lo abbiamo vissuto, ricordiamo come questi italiani si siano immolati per un paese che, per quanto pieno di problemi, amavano.
Sono passati 71 anni da quei giorni pieni di spari, esplosioni e morti, 71 anni attraverso i quali, nonostante i molteplici cambi generazionali, questo giorno continua ad essere di fondamentale importanza per anziani e per giovani, un giorno dove i nipoti parlano con i nonni e si fanno raccontare cosa provassero loro in quegli anni e la risposta che ne ottengono è sempre la stessa: paura.
Lunedì scorso, solo per un giorno, abbiamo avuto l’occasione di stringerci davvero a coorte e di ricordare che prima di essere persone che credono nelle idee di un partito piuttosto che in quelle di un altro, siamo tutti esseri umani che non dovrebbero morire di nient’altro se non di morte naturale. Questo è stato il 25 aprile agli occhi di un quindicenne, un giorno dove invece di continuare a farsi la guerra, anche se senza armi, bisognerebbe provare a ringraziare e a vivere una totale serenità, riflettendo su come siamo stati fortunati a non nascere in quegli anni e trasformando questi nostri anni in un impegno per qualcosa di vero, vincendo con la nostra vita ogni paura e ogni terrore.
Certo è che, quando penso a tutti quei morti, mi domando: “Ma io, in fondo, avrei qualcosa per cui sarei disposto perfino a dare la vita?”. Mi rendo conto che da questa domanda dipende molto, dipende tutto il senso del 25 aprile che c’è stato e di quelli che verranno.
Emanuele Canessa, 15 anni, prima liceo classico
–
E’ da anni che cerchiamo un nuovo modo per parlare a scuola del 25 aprile, ancora tirati da due estremi che non si toccano, da una parte la celebrazione della resistenza come santità laica di tanti uomini che si sono sacrificati per la patria, dall’altra l’esigenza di chiarire tutto quello che è successo dentro la storia.
E noi insegnanti in mezzo, ricattati da questo modo comunque ideologico, perché si doveva decidere di stare da una parte o dalla parte di chi è contro ogni fascismo o dalla parte di chi vuole ricostruire la storia del fascismo. Siccome dominava la volontà di reazione all’altra parte, anche chi non voleva essere ideologico finiva per diventarlo, contrapponendo alla celebrazione di parte l’ideologia del realismo storico.
Per anni siamo andati avanti così e non abbiamo raccontato nulla del 25 aprile, lo abbiamo solo usato per affermare una posizione. Questo ai giovani d’oggi non interessa, non capiscono che cosa ci stia dentro ogni posizione; inoltre proprio non interessa loro prendere una posizione — e una posizione perché?
Sono forse dei pusillanimi i giovani d’oggi, vogliono evitare di pronunciarsi? No! Nulla di tutto questo, vogliono sapere, e la storia la si sa se la si racconta, non se la si interpreta, non se la si usa.
I giovani d’oggi hanno sete di conoscenza, vogliono che si racconti loro che cosa è successo, come un popolo che è stato oppresso per vent’anni si è ritrovato e ha cominciato a ricostruirsi.
Quella del 25 aprile è stata una grande occasione per scoprire la vita di quella gente che ha vissuto sotto il fascismo, per intercettare l’anelito del loro cuore, per individuare le mosse di chi ha preso le armi contro l’oppressore, per gioire con loro nei giorni della liberazione.
E soprattutto è una grande occasione per finirla di parlare della Resistenza come lotta-contro. Certo vi è questa dimensione di opposizione al tiranno, ma la verità della Resistenza sta nel fatto che i suoi ideali sono diventati la leva per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa che c’era già e che il fascismo non era riuscito a cancellare, un popolo, una capacità indomita di condividere il bisogno dell’altro, una tensione insopprimibile a considerare l’altro come ricchezza.
Questa è la Resistenza, e che sia stato questo lo testimonia l’Italia della ricostruzione, tutti insieme a mettere mattone su mattone perché sorgesse un’Italia nuova.
Di questo è segno una Costituzione che non fu democristiana né socialista o comunista né liberale, ma che assunse tutti gli ideali in un amalgama unico in quel periodo di Guerra fredda. Questo evento è unico, nessuno riuscì a costruire una democrazia così aperta, dove ognuno poteva e può essere se stesso in rapporto con l’altro che è diverso, con una identità diversa.
Si deve insegnare così la storia di quei giorni di liberazione, si deve insegnarla così per andare alle origini di quello che cerchiamo di essere oggi: un popolo, un insieme fatto da tante relazioni. Oggi, con sfide diverse, è davanti a noi la stessa questione seria di quei giorni, passare da un nervoso andare-contro alla costruzione del popolo che siamo, dove ognuno possa star bene, essere com’è e star bene con gli altri.
Gianni Mereghetti, insegnante