Se la notizia (fonte, Corriere.it) fosse veramente come riportata nel comunicato dei Cobas — tre docenti sospese per sei giorni per non aver voluto “propinare alle/ai loro studenti/tesse prove di addestramento ai quiz Invalsi”, sarebbe sorprendente.

Infatti è lo stesso Istituto che, per bocca del suo direttore generale, Paolo Mazzoli, rimarca che “L’Istituto nazionale di valutazione rileva e misura gli apprendimenti con riferimento ai traguardi e agli obiettivi previsti dalle Indicazioni, promuovendo, altresì, una cultura della valutazione che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento delle prove”.



C’è da chiedersi, però, nel caso delle docenti dell’Istituto superiore di Nuoro, se questa strategia (somministrazione di simulazioni di prove Invalsi) non fosse stata deliberata ad esempio dal collegio docenti o dai dipartimenti disciplinari. Se non si trattasse, cioè, di un’azione didattica decisa collegialmente; e — d’altra parte — una cosa è l’addestramento, un’altra fare una simulazione per far vedere agli studenti di che si tratta (anche se, delle prove Invalsi, arrivati alle superiori, gli alunni hanno un’idea ormai ben chiara).



Si propongono simulazioni per la prima, la seconda e la terza prova dell’esame di stato: perché non ammettere la possibilità di simulazioni dei questionari Invalsi?

Non vorremmo, cioè, che dietro alla sospensione ci fosse un’azione di voluta rottura con l’istituzione: nel qual caso non ci sentiremmo affatto di sostenere le tre docenti. Ovvero non ci vogliamo schierare dalla parte di chi — ideologicamente — si pone contro i questionari Invalsi: e ci pare che non poca ideologia trasudi da tutto il comunicato dei Cobas. Così molta ce n’è nei docenti — e ce ne sono — che addirittura invitano i propri studenti a non andare a scuola nei giorni di somministrazione o a consegnare i questionari in bianco.



Ma — per converso — non possiamo non considerare che le prove somministrate da Invalsi portano con sé alcune conseguenze problematiche, anche se non volute o non prevedibili.

La prima è appunto legata all’addestramento: bypassando il caso specifico sopracitato, è innegabile che in alcune scuole — non tutte e, per fortuna, non molte — vi sia una certa tendenza a destinare un congruo tempo dell’attività didattica per le “esercitazioni” alle prove Invalsi, o a prove simil-Invalsi, nonostante i reiterati ed espliciti appelli dell’Istituto di Villa Falconieri: magari questo succede più in alcune regioni d’Italia che in altre, in alcune gradi di scuole, anziché altri, ma questa pratica esiste.

Anche nella formula — più blanda e in apparenza innocua, ma non per questo meno incidente — dell’utilizzo del format proposto da Invalsi riapplicato alle normali prove di verifica. Niente di male, certo. Anzi le domande proposte dall’Invalsi sono molto curate, esprimono precisi indicatori: ma possono anche diventare, nelle mani dei docenti, una modalità “meccanica” e “riduttiva” di impostare, ad esempio, lo studio della letteratura che non può certo essere ridotta solo all’analisi del testo.

Sia ben chiaro, non è certo l’Invalsi a imporre tale riduzione: ma questa è una di quelle conseguenze indesiderate e imprevedibili che si sono manifestate, complici anche le case editrici, che hanno proposto batterie di verifiche simil-Invalsi.

La seconda conseguenza indiretta sta nel Sistema nazionale di valutazione, che ha previsto la stesura del Rapporto di autovalutazione. In apparenza non esiste relazione tra questo e i questionari Invalsi: però, nel Piano di miglioramento, molte scuole hanno puntato sull’innalzamento degli esiti raggiunti dai loro studenti nei test Invalsi. Numerose e diversificate sono state le strategie messe in atto dalle istituzioni scolastiche: ma, che cosa c’è di più semplice ed immediato che incrementare le simulazioni? Ci sbaglieremo, ma il rischio che qualcuno trovi la soluzione attraverso la via più breve — anche se non più efficace e ortodossa — è dietro l’angolo.