Da alcuni giorni campeggiano sulle testate nazionali e nelle pagine di cronaca locale titoloni e articoli sulla vicenda della droga spacciata in classe, in una scuola della Brianza — la scuola media Don Rinaldo Beretta di Giussano — da un alunno di terza media ad una compagna. Ma le cose così come riportate da giornali, locali e non, sembrano troppo semplici. E infatti, come in un brutto varietà televisivo, assistiamo ormai al formarsi di due schieramenti contrapposti, l’uno a favore del provvedimento, l’altro ormai agguerrito lancia in resta contro una scuola che non è grado di assumersi il suo compito educativo. Un ragazzo di terza media vende della marijuana alla sua compagna. Questo è il fatto, questo è quanto accaduto. Per qualcuno basterebbe questo a legittimare il provvedimento della scuola — sospensione ed esclusione dall’esame di terza media. Per qualcun altro, invece, no. La “roba” è poca, l’imperizia così evidente che si tratta proprio di una ragazzata. Così è la questione come è stata posta dai giornali. Il film presentato così sembra davvero troppo semplice, costruito apposta per dividere in guelfi e ghibellini. 



Ma se si vanno a vedere i fatti che hanno portato il consiglio di classe prima e poi il consiglio d’istituto a formulare il provvedimento di espulsione dalla scuola per entrambi i ragazzi, ne viene una realtà diversa.

Chi sono questi due ragazzi? La scuola, volendo tutelarli fino in fondo, non ha mai rivelato alcuni fatti che hanno preceduto quest’episodio, ma ormai, con l’intervento in campo anche di assistenti sociali, assessori e persino del sindaco del paese, anche un cieco si renderebbe conto che le cose stanno diversamente. Così, siamo venuti a sapere che i due giovani erano seguiti dagli assistenti sociali, che si tratta di due studenti ripetenti, che in particolare il ragazzo era al centro di un progetto educativo articolato e complesso, costruito con la collaborazione della scuola e di altri enti del territorio. E che la sua situazione familiare è tale da far sì che sia affidato al sindaco in qualità di tutore. 



Gli insegnanti hanno lavorato molto con questi alunni, circondati da attenzioni e considerazione, specialmente durante la ripetenza. Insegnanti e alunni hanno voluto bene ai due ragazzi espulsi, hanno ascoltato le loro richieste, i loro bisogni; gli adulti sono intervenuti ridimensionando con pazienza gli eccessi, spiegando e motivando le scelte, ma mai giustificando parole, gesti e azioni sanzionabili. Molti sono stati gli episodi in cui il consiglio di classe, preoccupato di una situazione che andava presentandosi sempre più a rischio, ha segnalato a quegli stessi organi pubblici la necessità di ulteriori interventi, di una rinnovata decisione nell’affrontare il ripetersi di episodi gravi.



Ancora una volta, di fronte agli attacchi sulla stampa e degli stessi organi comunali, la scuola non ha sbandierato, per un alto senso di responsabilità, quanto in questo anno scolastico era avvenuto all’interno di quella classe, quanto è stato fatto per aiutare i due ragazzi e gli altri. Perché non riteneva corretto dare in pasto all’opinione pubblica i disagi e le difficoltà di persone minori che invece ora, grazie all’intervento di alcuni che avrebbero, come la scuola, la responsabilità di proteggere quegli stessi minori, sono di pubblico dominio. Ma se questo è avvenuto, se ora sappiamo quanta strada ci sia stata prima di arrivare al fatto dello spaccio, c’è da osservare con amarezza che queste evidenze non hanno minimamente spostato i termini del dibattito. E invece, secondo noi, la conoscenza di questa storia cambia completamente i termini del problema.  

La scuola, già nel testo del provvedimento del consiglio d’istituto, ha sempre asserito di avere agito con tempestività a garanzia e a tutela dei due ragazzi e dei loro compagni. Sulla stampa questo sembrava significare: li buttiamo fuori perché non rovinino anche gli altri, per paura, per incapacità. Ma la storia che raccontano gli insegnanti è diversa. La scuola ha sempre rivendicato il suo ruolo educativo, la nuova classe ha accolto con entusiasmo l’arrivo dei due compagni arrivati nel corso del triennio. Ma poi quegli stessi ragazzi giovedì 21 aprile hanno avuto il coraggio di denunciare un fatto ritenuto gravissimo e ultimo di una serie di comportamenti inadeguati e offensivi. A 14 anni si può avere la forza di parlare, anche grazie all’educazione, a principi come legalità, bene, rispetto se questi non rimangono parole. 

Nei giorni immediatamente successivi all’episodio in classe, raccontano gli insegnanti, aleggiava la paura: gli occhi dei ragazzi parlavano e chiedevano, persi, cosa dovessero fare. La risposta, dicono a scuola, ancora una volta, è stata la volontà di aiutare tutti. A cominciare da coloro che con il loro comportamento hanno una volta di più manifestato tutto il bisogno che nascondono dietro ad atteggiamenti trasgressivi, il bisogno ormai sempre più evidente di un percorso adeguato ce possa sostenerli nella ricerca di quel bene che, loro malgrado, hanno perso di vista. Un percorso che, come i fatti dimostrano, per certe situazioni deve necessariamente giungere da un concerto di elementi che non lasci da sola la scuola. 

La scuola ha sempre sostenuto, dal consiglio di classe al presidente del consiglio d’istituto, alla responsabile di plesso, che il provvedimento preso è innanzitutto nato dalla consapevolezza estremamente realistica che la scuola, in questo momento, e con i mezzi in suo possesso, poteva solo rendere evidente per tutti la necessità di un intervento speciale, anche per coloro che, preposti alla tutela dei ragazzi, avevano sempre fatto orecchie da mercante. Non l’esame di terza media è la necessità di questi ragazzi, ma ben altro. 

Del resto, se fosse stato preso un provvedimento più blando, un allontanamento temporaneo con la possibilità di un reintegro, l’esame non avrebbe comunque potuto essere garantito: come si può ammettere all’esame chi, comportandosi così, non avrebbe certamente ottenuto un voto sufficiente di condotta? O avrebbero dovuto illudere i due giovani di poter continuare con il loro atteggiamento? La scuola, nei suoi atti ufficiali, ha sempre dichiarato di avere tutelato per primi proprio i due ragazzi e conseguentemente il resto della classe. 

Alla luce dell’amara storia che precede il fatto in questione, si può ancora criticare la scelta compiuta? Metterla in discussione certamente sì, ma non al modo con cui lo si è fatto sugli organi di stampa.

Il sindaco di Giussano, rappresentante dell’ente affidatario dei due minori in questione, pur affermando in ogni occasione, anche attraverso un comunicato fatto pervenire la sera dello svolgimento del consiglio d’istituto, di non voler minimizzare la vicenda, ha espresso a più riprese la convinzione che il provvedimento preso sia assolutamente sbagliato perché espellere i due giovani, per i quali l’obbligo di frequenza cesserà al compimento del sedicesimo anno, sia il prologo di un abbandono scolastico, con tutte le conseguenze che ciò potrà comportare nel loro futuro. Per il sindaco la scuola deve sapere integrare, non escludere, ed escludere vuol dire fallire come istituzione educativa. Di fronte a un’azione sbagliata, dice ancora il sindaco, non ci si può permettere di pregiudicare il futuro di due adolescenti che hanno il diritto di riscattarsi terminando l’anno scolastico e sostenendo gli esami. Ma occorre chiedersi: il futuro è l’esame? Allontanarli, dice sempre il sindaco, aumenterebbe la possibilità per loro di trasformare un episodio in uno stile di vita. Ma quello è solo un episodio o il sindaco, come ormai è evidente, sa bene che c’è altro?

Sui giornali è intervenuto anche l’assessore ai servizi sociali, rivelando che in Comune stanno studiando un’azione legale contro la decisione della scuola. Un’altra responsabile del servizio tutela minori afferma senza giri di parole che la scuola ha fallito il suo mandato educativo e che i servizi avrebbero proposto per i ragazzi la frequentazione di un’altra struttura, senza toglier loro la possibilità di affrontare l’esame; anche perché i due quattordicenni non hanno nessun precedente di tipo giudiziario e la quantità di marijuana trovata loro addosso è soltanto di 0,02 grammi. 

Anche qui, alla luce delle difficoltà e delle complessità di cui è piena questa storia, forse c’è da chiedersi se è così lungimirante la veemenza con cui questi organi pubblici si sono scagliati contro la decisione presa dalla scuola. Possiamo comprendere che la scuola abbia attirato gli strali degli utenti di Facebook e delle pagine web dei giornali, ma com’è possibile che chi è al corrente della vicenda possa comportarsi come il sindaco, come l’assessore o la responsabile dei servizi di tutela? Com’è possibile pensare che il problema vero di questi giovani sia quello di affrontare l’esame? 

Tutto questo fa vedere quali meccanismi subdoli e contorti possano essere messi in atto per parlare di una cosa senza in realtà mai parlarne davvero. E il meccanismo, purtroppo, è quello di sempre: non si lasciano parlare i fatti. Ad esempio, nei diversi interventi che si sono moltiplicati sulla carta e sul web non si è mai parlato della libertà. Della libertà che, pur nella loro ancora fragile e incompiuta personalità, i ragazzi hanno usato per scegliere cosa fare: anche di fronte a tutte le strutture, ai percorsi, alle attenzioni messe in atto, bisogna riconoscere che gli individui scelgono, che questi ragazzi hanno scelto. Ed è con la loro libertà che qualsiasi proposta pensata per loro dovrà confrontarsi: la scuola, non quella in questione, ma la scuola tutta, è in grado di farlo? 

In una vicenda in cui ha fatto gioco spostare l’attenzione su altro, occorre davvero rispondere alla domanda “di chi è la colpa”? No; bisognerebbe invece interrogarsi su quanto i diversi attori della vicenda siano stati capaci di assumersi fino in fondo le loro responsabilità. Forse converrebbe che chi ha alzato il dito accusando la scuola, per esempio, ripensasse a quanto era in suo potere fare e magari non ha fatto, anche perché non ha mai dato ascolto alla realtà che parlava attraverso le sollecitazioni, le richieste, le segnalazioni che venivano dalla scuola. 

Forse oggi converrebbe che chi è preposto ai servizi sociali non perdesse tempo con lo studio di possibili azioni legali o ricorsi, ma guardasse in faccia quei ragazzi che adesso sono fuori da una scuola e che dovrebbero sempre esser presi in considerazione per quello che sono. 

Forse oggi converrebbe a tutti guardare a quello che hanno fatto i compagni di quei due quattordicenni, che hanno avuto la certezza che il bene di tutti fosse che gli insegnanti sapessero, che gli adulti potessero finalmente intervenire per aiutare i loro compagni. 

Forse oggi converrebbe che i giornali e i chiacchieroni spegnessero i fari accesi sul dito che si alza a indicare la luna e la guardassero per davvero, la luna. Forse oggi converrebbe che posassimo lo sguardo su questi due ragazzi che gridano la loro povertà a un mondo che non li ascolta perché è troppo preso a decidere di chi è la colpa. Che forse, proprio per questo, è più povero di loro.