Uno sguardo appena un po’ attento alla scuola italiana non può fare a meno di notare che, a quasi vent’anni dalla legge 59/1997 che istituiva l’autonomia, e a quindici dalla sua effettiva entrata in vigore, l’autonomia stessa ha subito un processo di involuzione ed è diminuita, e non aumentata, sia nelle scuole statali che in quelle paritarie, tanto che solo un numero limitato di scuole utilizza appieno la flessibilità concessa dalla legge. In questo quadro generale poco allegro io vedo un aspetto particolarmente negativo, ed è la mancata attuazione del sostegno alle famiglie che scelgono di mandare i figli alla scuola paritaria. Proseguendo la serie dei recenti contributi che il sussidiario (vox clamans in deserto) ha dedicato alle scuole paritarie, una volta ribadita l’insensatezza delle posizioni stataliste, vorrei mettere in luce anche un aspetto che andrebbe tenuto presente, anche se temo che qualsiasi cosa si possa scrivere o dire, qualsiasi prova si porti della maggiore efficacia ed efficienza di un sistema realmente integrato, non sia in grado di schiodare un’opposizione che si basa su asserzioni assiomatiche quando non pregiudizi.  



La quasi totalità delle ricerche sull’efficacia dei sistemi formativi ha messo in risalto un sistematico collegamento fra autonomia delle scuole e riuscita degli alunni. Economisti come Hanushek e Woessmann hanno più volte riscontrato che il modello di scuola più efficace per contrastare le disuguaglianze di origine famigliare e migliorare il rendimento è quello in cui le scuole sono “publicly funded but privately operated”, che è un modo sintetico per definire la sussidiarietà. Di particolare interesse gli studi fatti in Germania, dal momento che paragonano studenti con la stessa lingua, lo stesso paese, la stessa cultura di fondo, lo stesso sistema legale, e quindi consentono di assegnare le variazioni alle diverse forme organizzative previste dai diversi stati. 



Se si parte dalla considerazione che l’appiattimento sul modello unico centralizzato è causa di inefficacia e di inefficienza, perché non è in grado di adattare la proposta educativa ai bisogni dell’utenza (diretta, gli studenti, o indiretta, la comunità locale), mentre le scuole di scelta, statali o private, consentono di migliorare sia gli esiti di apprendimento, sia il contributo allo sviluppo personale e sociale, valorizzando sia la qualità che l’equità, un’interessante ricerca presentata a fine aprile a Ginevra (Indice della libertà di educazione (FEI). Rapporto mondiale 2016 sulla libertà educativa, a cura della Fondazione Novae Terrae e dell’Oidel) fornisce qualche elemento aggiuntivo per spiegare il modesto rendimento della scuola italiana. 



Partendo dall’idea ampiamente documentata sul piano giuridico internazionale che la tutela del diritto all’educazione deve comprendere il riconoscimento da parte della legge del diritto di aprire scuole private, la possibilità per queste scuole di entrare a fare parte a pieno titolo del servizio pubblico di educazione e di fruire di un sistema equo di finanziamento, il rapporto ha costruito un indice che consente di stimare la libertà educativa di un paese, prendendo in considerazione quattro elementi ponderati:

La possibilità legale di creare scuole non statali,

Il sostegno finanziario pubblico alla libertà di insegnamento, nelle sue possibili forme,

Il tasso di scolarizzazione nella scuola primaria, 

La percentuale di ragazzi iscritti nelle scuole indipendenti.

I paesi esaminati sono stati 136: in testa l’Irlanda, con 389 punti; in coda il Gambia, con 69. E l’Italia? Quarantasettesima, con 228,10 punti, ultima fra i paesi dell’Europa Occidentale, e solo grazie al punteggio pieno consentito dalla Costituzione e dalla legge 62, dagli elevati tassi di scolarizzazione primaria e dalla presenza relativamente elevata di iscritti alle scuole paritarie in questa fascia: quanto a finanziamento, è nel gruppone che va dal 41° posto del Libano al 97° della Costa d’Avorio. 

Un’altra ricerca, elaborata dall’Iref (Institut de Recherches Économiques et Fiscales) nel 2013 confrontando i risultati dei test Pisa e gli indicatori Eurydices di autonomia, mostra che i cinque paesi europei con i migliori risultati sono tutti nel primo gruppo di sistemi educativi per libertà di insegnamento. Tra i 20 sistemi educativi europei che hanno risultati superiori alla media, dodici (il 60%) sono nei primi due gruppi per libertà di insegnamento, e reciprocamente dei 19 sistemi con la più ampia tutela della libertà di insegnamento dodici sono sopra la media dei risultati Ocse. Considerando il rapporto fra autonomia e riuscita, l’Italia è ventunesima su trentun paesi esaminati. 

Si può certamente sostenere che questi tipi di graduatoria, come tutti i ranking,  lasciano il tempo che trovano, che gli indicatori potrebbero essere diversi, che non è vero che la scelta sia una dimensione fondamentale dell’autonomia. Ma una seria riflessione, se non sui principi almeno sui risultati, sarebbe doverosa.