Formare capitale umano significa porre le basi per innovare, per gestire al meglio le risorse, per creare ricchezza a tutti i livelli. Proprio per questo la formazione, soprattutto quella universitaria, è divenuta oggetto di studi approfonditi da parte degli economisti, oltre che degli esperti di settore. Assistiamo a una corsa globale a elevare i sistemi di formazione, nella quale i famosi ranking giocano un ruolo decisivo, inevitabilmente portando a qualche segno di omologazione l’offerta formativa a livello internazionale: nel momento in cui si sono fissati criteri e metodi di valutazione, chi è più “indietro” ha intravisto nello scalare i ranking un modo per avvicinarsi ai modelli più famosi e avanzati, a volte sacrificando peculiarità e tradizioni particolari pur di giocare un ruolo non da comprimari nel grande mercato della formazione universitaria. E’ proprio grazie a quest’obbligo non scritto ma globalizzato di valutare e valutarsi che anche il nostro paese sta muovendo alcuni passi che dovrebbero rallegrarci, pur tenendo presente che ciò che accade in alcuni luoghi è imparagonabile con quanto accade in molta parte del resto del paese. Le grandi città del Nord, in particolare, offrono una quantità, una varietà e una qualità dell’offerta difficilmente rintracciabile in altre città italiane.



Fin qui tutto bene: un paese come l’Italia sta cercando di raggiungere certi standard per alzare la competizione al suo interno e affacciarsi all’esterno liberandosi di quel complesso di inferiorità che troppo spesso lo ha chiuso nel suo provincialismo. Quello che non va altrettanto bene è ciò che accade nelle vite degli studenti italiani. A guardare la situazione odierna, sembra che nessuno sappia cosa stia succedendo alle giovani generazioni: i genitori non sanno cosa sono costretti a vivere i figli, ma, guardando ancora da più vicino, nemmeno chi “eroga il servizio” ha bene in mente cosa sta accadendo in chi cerca di usufruirne. 



Se le parole d’ordine di questi anni sono state “aumentare l’offerta formativa” e “elevare gli standard”, quello che nessuno ha avuto il piacere di investigare è come questo incremento sia stato perseguito. In un mondo nel quale il punto qualificante di un percorso educativo è la misura, il rischio forte è che questo criterio non sia realmente adeguato. Se il solo sforamento di una certa soglia numerica appare il giusto premio a un’attività formativa, qualunque essa sia e comunque venga proposta e svolta, è evidente che la semplificazione è in agguato a ogni passo. 



Nei nostri studenti dunque avviene una scoperta, che li accompagnerà fino alla fine del loro percorso: bisogna studiare tanto per arrivare a un certo livello, non per crescere come persone, non perché conoscere è ciò che distingue e nobilita l’uomo. Sembra niente, una sfumatura, eppure c’è dentro un cambio di paradigma irriducibile: l’efficenza viene scelta come criterio educativo

Infatti, non è dato pensare se all’inevitabile fatica da compiere per raggiungere certi obiettivi si accompagnerà una qualche idea sul come e sul perché valga la pena sobbarcarsi questa fatica. Questo — ed è il vero punto critico con il quale tutti dovrebbero fare i conti — il “sistema” non lo prevede: i programmi ministeriali prevedono principalmente il raggiungimento degli standard, preoccupandosi al più di una sana inclusione sociale dei frequentanti. Cari genitori, vi siete mai accorti che una spaventosa onda meccanicistica e funzionalistica sta travolgendo i vostri figli? 

Ma arriviamo all’università. Qui siamo autorizzati a sperare che le cose vadano meglio: l’università dovrebbe essere il luogo dell’approfondimento libero, della crescita personale non solo attraverso lo studio ma anche attraverso altre esperienze e percorsi personali. Ma questo accade? La notizia degli ultimi anni è che no, non accade, e accade e accadrà sempre di meno. 

Non è necessario essere dei fini pedagoghi per capire che se uno studente di ingegneria deve assistere a 34 ore di lezione alla settimana (e parliamo di analisi, fisica, elettrotecnica, scienza delle costruzioni, elettronica… tutte materie dal peso specifico tutt’altro che leggero, che richiedono molte ore di studio oltre che di lezione), o che se uno di lingue è costretto a frequentare 39 ore alla settimana, la sua vita è letteralmente inghiottita dallo studio. E’ la proletarizzazione dello studente. Il paradosso è che il mercato del lavoro cerca come oro la persona “particolare”, quella che ha avuto esperienze formative parallele, che ha coltivato passioni e interessi non-specialistici. Domanda: quando sarebbe possibile questo sviluppo personale?

Lo studente dell’università “importante” viene letteralmente schiacciato dalla mole di lavoro da compiere, e nulla nell’istituzione gli fa pensare ad altro. E tanto più è prestigiosa e importante, tanto più il carico sarà pesante. Isolato e in competizione con gli altri colleghi, dedito completamente a lezioni e studio, lo studente-proletario accetta supino tutto quello che l’istituzione gli dice. Lo studio per l’esame, lo studio per “fare bene il percorso” non è più importante: è diventato tutto. Tutto va sacrificato allo studio, soprattutto il tempo libero, le passioni “altre” rispetto all’università, a volte anche le occasioni di rapporto fra colleghi.

Solo ogni tanto emerge qualche lampo di umanità, quando qualcuno fa riemergere una domanda di significato rispetto al tempo e alla fatica, ma il panorama al quale si rivolge questa domanda di senso è però desolante: al di là del rimandare la risposta al “futuro”, al “lavoro”, alla “professione”, è spesso introvabile chi stimola e si prende la responsabilità di rispondere personalmente. Il mondo della formazione sta perdendo forse di vista il fattore determinante e più prezioso di tutto il processo: l’io di chi si fa formare, al di là di qualsiasi ranking. 

Eppure andare incontro a questi “io” spesso fragili e confusi, guardandoli in faccia, aiutandoli a riconoscere il loro valore a prescindere dai risultati è sempre possibile. Quando uno studente del secondo anno di ingegneria ammette stupito e impacciato di aver “scoperto con piacere la lettura di un libro” dopo una certa discussione, o quando una più grande confessa che un certo dialogo le ha fatto capire “che è capace anche lei di fare cose buone” si capisce che nulla è irrimediabilmente perso della loro umanità e che la partita è ancora aperta. Di fronte al fatto che le giovani generazioni attuali servono alla crescita di un sistema globale che impone al mondo modelli e metodi razionalmente indiscutibili, ma spersonalizzanti, una sola certezza può vincere: che la storia non la fanno i modelli, ma le persone. E la persona rinasce in un incontro vivo.