Fine scuola, tempo di bilanci e di domande. La chiusura (imminente) dell’anno scolastico porterà con sé anche la chiusura del primo punto della lavagna del premier Matteo Renzi, quello relativo alla alternanza scuola-lavoro, per cui tutti gli studenti delle classi terze di professionali, tecnici e licei “hanno abbandonato l’aula per andare in azienda ad imparare un mestiere”, o forse “hanno imparato cos’è il lavoro venendo in azienda” o forse “hanno scoperto come sia impegnativo/stressante/gratificante/interessante lavorare”. 



La scuola che progetta, l’ente che accoglie, lo studente che fa? Sembrerebbe uno schema estremamente riduttivo di quella che dovrebbe essere una rivoluzione culturale in cui lavorare a progetto, imparare facendo (il leaning by doing) abbraccia il fratello maggiore, il lavoro in azienda, e quindi ne esce rafforzato.



Ma la scuola insegna facendo? Spiegare e poi verificare è imparare facendo? Oppure ne è la negazione, il “diavolo” da evitare? Spesso e volentieri sì, e trasforma la scuola da “opificio della cultura” a compitificio, interrogatificio e recuperatificio; avendo immesso tot nella macchina produttiva, si verifica il prodotto che ne esce, spesso constatandone la “difettività”, e lo si rimanda al produttore, oppure lo si scarta, anzi, nella scuola secondaria, il prodotto si  scarta da sé. Abbandona la scuola.

L’alternanza scuola-lavoro ha nelle sue finalità quella di diminuire la dispersione scolastica, migliorando l’aspetto motivazionale; con il lavoro nel ruolo della dimensione educativa capace di (ri)motivare gli allievi. Ma se l’allievo non ha fatto nulla, nelle tot ore che ha passato in azienda, è stato (ri)motivato? E se ha lavorato, ma in assenza di un progetto che tenesse conto di quanto detto essere il profilo in uscita dello studente del suo corso, per non parlare della sua specifica personalità culturale ed umana, è stato (ri)motivato? E se ha lavorato, in presenza di un progetto che tenesse conto di quanto detto essere il profilo in uscita dello studente del suo corso — per non parlare della sua specifica personalità culturale ed umana —, come valutare la ricaduta di quanto fatto in azienda nella scuola, in termini non meramente quantitativi, cioè non solo nella attribuzione del credito scolastico?



E se l’allievo quest’anno non ci è andato affatto in azienda, e ha fatto un Ifs, una Impresa Formativa Simulata, cioè ha finto costituzione e gestione di imprese virtuali che operano in rete, assistite da aziende reali, è stato (ri)motivato, perché ha respirato l’aria del learning by doing, magari presente anche altrove nella sua scuola, ma per lui/lei primo amore? E vedrà poi una continuità in quanto fatto perché le aziende “assistenti” lo accoglieranno in azienda nel corso del quarto anno? Se non loro, altre simili per… struttura? dimensioni? specificità produttiva? mansioni affidabili allo studente? 

Secondo un recente sondaggio effettuato da Skuola.net su 2.800 studenti, circa la metà degli studenti che hanno fatto alternanza scuola-lavoro potrebbe rispondere solo a domande sull’Ifs perché l’azienda quest’anno non l’hanno vista; la “fame” di aziende, visto l’ampliarsi del numero di studenti “alternanti” da 270mila ai futuri 1,5 milioni fra due anni, è crescita al punto da diventare endemica. Non a caso sono i licei ad aver più sofferto di questa fame, mancando quella rete di rapporti con le aziende del territorio, o essendo limitata a pochi contatti; il 55% dei liceali intervistati ha fatto un Ifs, e non è andato in azienda. Crearsi una rete di rapporti col territorio è già impegnativo se si devono “piazzare” due classi, per un totale di circa 50-55 studenti (situazione che corrisponde solo alle scuole paritarie con classi ancora corpose), ma i numeri di qualsiasi liceo statale sono mediamente di ben altra natura. I licei hanno quindi pagato il pegno di un loro ritardo organizzativo, frutto di una loro mancata “cultura di impresa”? Magari aggravata dall’insofferenza delle aziende che ai liceali non sanno cosa far fare? 

No di certo. Se di colpa si deve parlare, si parli della colpa di chi inventa riforme della scuola per farla diventare buona, ma non predispone un piano di formazione adeguato per l’espletamento degli obblighi formativi che il personale della scuola è comunque obbligato ad addossarsi, nella logica che per vincere l’immobilismo della scuola occorra “costringerla” a cambiare con piani imposti centralmente. 

Se il nuovo obbligo formativo, ad esempio il Clil, è “interno alla scuola” come istituzione, non può che arenarsi sul duro scoglio della realtà del mondo se bisogna trovare per numeri consistenti aziende e/o enti che progettino con la scuola percorsi di qualificazione e (ri)motivazione. Non si “importa” il modello del sistema duale tedesco, neanche in versione leggera, se non si ha una gestione federale, e non centralistica, del sistema istruzione.

Tuttavia un dato non va ignorato, e riguarda le risposte degli studenti intervistati da Skuola.net in merito al “gradimento dell’esperienza”: il 70% degli studenti dei professionali e il 62% dei tecnici la valuta “molto utile”, e solo il 44% dei liceali la valuta “poco utile”. Un dato che mostrerebbe la validità formativa dell’alternanza scuola-lavoro, pur nella precarietà delle considerazioni in cui sia stata svolta, oppure il colpevole desiderio negli studenti di sfuggire per qualche giornata al compitificio, interrogatificio, e recuperatificio? “L’evasione del prigioniero non va confusa con la fuga del disertore”, ebbe a dire J.R.R. Tolkien, soprattutto se il prigioniero ha, come in questo caso, l’obbligo di evasione; pardon, di formazione.