L’Italia, lenta, con decreti e leggi va allineandosi allo standard occidentale per quel che riguarda l’aiuto alle famiglie giovani, come recentemente ha osservato Vincenzo Calabrese, commentando tuttavia che il problema della denatalità non è legato solo a fattori economici, ma anche ai lenti progressi sociologici.
Se guardiamo da vicino il problema della denatalità ecco che appare un’evidenza: alle urgenze economica e sociale ora riportate va affiancata anche un’urgenza ultima. Infatti si genera figli quando il cuore ha sovrabbondanza di speranza, e la speranza non è determinata solo dalle pur necessarie sicurezze economiche e sociali, ma da qualcosa di personale e forse misterioso. La sociologa Margaretha Johansson sulla rivista Sexual and Reproductive Healthcare del prossimo giugno descrive questo come necessità di “salute emotiva” che deve essere coltivata e facilitata. Lo stesso è riportato da S.K. Nelson su Psychological Bulletin del maggio 2014, in cui associa la soddisfazione di diventare genitori con l’avere un “significato nella vita” e una “soddisfazione emotiva”. Insomma, serve qualcosa che accolga “da fuori” i futuri genitori (fattore economico e sicurezza sociale), ma al contempo non si può far a meno di qualcosa che li faccia fiorire da dentro — la salute emotiva per l’appunto —, che essi stessi facciano fiorire e che i suddetti fattori esterni facilitano ma non soppiantano.
La scarsezza di figli oggi solo in parte può essere spiegata con fattori economici e sociali, altrimenti non si spiegherebbe perché gli ultraricchi hanno anche loro solo 1-2 figli per coppia. Certo, per non pochi il figlio è un ostacolo quando si è costretti a lavorare senza aiuto sociale o familiare; ma è un ostacolo culturale per tutti in una rete di Paesi che hanno fatto della “giovinezza” una mantra, con il conseguente indotto di consumi e di corsa ai beni posizionali (che l’arrivo di un figlio scalfirebbe). Fatto sta che ogni 100 anni la società italiana si rinnova solo 3 volte, mentre all’inizio del secolo scorso questo rinnovamento avveniva circa 4-5 volte. Meno dinamismo, meno freschezza, senza dubbio. Nessun rimpianto per tempi, usi e società avite, anzi. Tuttavia un pensiero va ai nostri avi pionieri e emigranti, che si può sintetizzare con un motto: “meno mezzi ma più speranza”. Naif? Forse, ma la “giovinezza” forzata e il limitare la vita a certi traguardi stabiliti dalla pubblicità ingenera un secondo mantra: “tenere tutto sotto controllo”. Col corollario che quello che non abbiamo sotto controllo ci spaventa a morte: un’ansia da controllo, una preoccupazione di successo ben lontani dalla salute emotiva consigliata e richiesta dalla medicina.
Salute emotiva che si forma nei primi mesi e anni di vita: i giovani di oggi sono i bambini di ieri, quelli che restano costantemente al chiuso alternando casa, classe scolastica e casa di amici per le feste, vivendo tra gli incubi di incontri orribili di sconosciuti e di incidenti stradali. Come non riconoscere che i bambini-galeotti di oggi non sono più padroni delle strade come cento anni fa? Non giocano ma fanno sport, non sono nemmeno padroni in casa loro perché il terrore di “sporco” e delle sostanze chimiche detergenti (in buona parte giustificato) li tiene alla larga da tutto. Vedono poco i genitori, giocano poco con loro, babysitterati da tv e videogames. Chi cresce in un clima simile di isolamento, di paura, di solitudine, di lontananza dalla natura e dall’aria libera come può pensare a guardare con speranza l’ipotesi di lanciare futuri figli — come diceva K. Gibran — come una freccia nell’ignoto mistero del mondo?
Veniamo allora all’attualità, alle proposte pratiche. Perché la salute emotiva si costruisce e cresce nell’alveo naturale di rapporti umani e sociali non resi alla stregua di quelli artificiali e costruiti dalle convenzioni o dalle opportunità politiche. E ameremmo allora veder facilitati questi rapporti, il contatto dei bambini con la natura e con i coetanei, tenerli meno al chiuso e renderli più esperti del mondo delle sensazioni naturali.
Ecco allora la perplessità verso la proposta di allungare all’estate il tempo scolastico per supportare e sostituire il tempo che i genitori non hanno a disposizione per i loro figli, per via del lavoro. E’ una proposta che ha acceso molte speranze in tanti, forse perché ormai sembra che il babysitteraggio scolastico sembra naturale, perché i genitori non hanno sentore del loro compito di contatto e scambio di sensazioni e affetto, e perché in fondo è più semplice e sbrigativo. Estendere la scuola all’estate è come dire che è un sostitutivo della famiglia, fino a dar l’impressione di voler fare equipollenza tra educazione familiare e istruzione di stato, fino a trasformarla in educazione di stato. Perplessità dovuta al fatto che vorremmo che i figli avessero più genitori e meno scuola, più educazione e collaborazione tra pari e meno “istruzione accademica” sin dall’asilo. Perché la scuola non è un sostituto o un palliativo alla presenza della famiglia; la famiglia per un ragazzo non è un’opzione come la scuola, gli amici di giochi non sono un’opzione come i compagni di squadra. Certo, i genitori lavorano e lavorano tanto; e se li aiutassimo con politiche del lavoro e della maternità a lavorare di meno quando hanno dei figli? La salute emotiva parte dal ridare più spazio alla famiglia, più opzioni ai genitori, più tempo libero; perché i genitori di oggi imparino ad amare il loro compito e contagino di speranza i figli; e perché i bambini di oggi contagino altri della speranza assorbita da piccoli.