Se c’è un tema che unifica il lungo arco temporale dello sviluppo della scuola italiana nei sessant’anni che vanno, grosso modo, dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio del nuovo secolo questo è, senz’altro, la generalizzazione dell’istruzione secondaria. Ho parlato di un arco ma in realtà l’immagine è fuorviante, perché a guardar bene si nota che il movimento è la risultante di due linee di svolgimento che vanno tenute distinte, quella che riguarda l’istruzione media inferiore e quella relativa al grado superiore.
Andiamo con ordine e, dunque, cominciamo dalla prima. Alla metà degli anni Quaranta, su 100 bambini che conseguono la licenza elementare 75 non vanno oltre il ciclo dell’istruzione primaria. Nel 1970 questo tasso di dispersione è ridotto al 20,5 per cento. Nel 1982 ormai sono poco più di cinque i bambini che si fermano alla quinta elementare. Si riducono pressoché a zero all’inizio degli anni Novanta.
È evidente la centralità che in questa dinamica assume il varo della scuola media unica. L’accelerazione prodotta dall’introduzione del nuovo istituto consegue nei tre anni della sua sperimentazione, tra il 1963 e il 1966, gli stessi risultati dei quindici anni compresi tra il 1945 e il 1960.
La scuola media unica in realtà intercetta un movimento più antico di fuoriuscita dei ceti popolari dal perimetro della scolarizzazione elementare cominciato a partire dagli anni Trenta. Un movimento, va ricordato, che non era stato fermato dallo sbarramento del latino messo da Gentile a presidiare il recinto dell’istruzione secondaria e che era rifluito, per così dire, ai suoi margini avvalendosi fin dalla metà degli anni Venti delle cosiddette passerelle per guadagnarsi l’accesso all’istruzione tecnica e al vasto mondo di quella professionale.
Questo movimento risulta più evidente se puntiamo lo sguardo sul fenomeno della scolarizzazione femminile. Veniamo così all’altro svolgimento di cui dicevo all’inizio, quello dell’istruzione secondaria superiore.
Ancora una volta sono gli anni Trenta a risultare centrali in questa vicenda. Come ho ricordato ne La scuola degli italiani, tra il 1913 e il 1923 la presenza femminile nella scuola secondaria superiore registra un incremento di poco più di cinque punti percentuali. Tra il 1926 e il 1937 i dati si fanno sorprendenti. L’incremento della popolazione femminile è del 103,6 per cento. Vale a dire che le donne, tra istituti magistrali, tecnici e professionali, e solo in parte nell’istruzione classica, raddoppiano i loro effettivi. Vale la pena ricordare, per un confronto, che nello stesso periodo la popolazione scolastica maschile cresce “solo” dell’80 per cento. In questo senso dicevo prima che gli anni Sessanta sono il punto di approdo di un movimento che nella società italiana è cominciato ben prima della nascita della Repubblica.
Tuttavia, se il passaggio dall’istruzione elementare alla scuola media si universalizza negli anni Novanta, il salto nella scolarizzazione secondaria superiore si produce negli ultimi vent’anni del Novecento. Nel 1983, su 100 adolescenti tra i 14 e i 18 anni, gli iscritti in una scuola secondaria di secondo grado sono 54 e anche in questo caso con le donne leggermente in vantaggio (54,6 contro 53,4). Vent’anni dopo questi stessi tassi hanno ormai superato il 90 per cento: 92 le donne, poco meno di 91 gli uomini.
Insomma, il ventesimo secolo italiano è quello della generalizzazione dell’istruzione post elementare. Ora, se si guarda alla mera occorrenza cronologica di questi conseguimenti, non si può non notare come i due ambiziosi progetti riformatori che tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila segnano, anche per la scuola, il passaggio alla cosiddetta seconda Repubblica, giungano fuori tempo massimo. L’Italia porta la totalità o quasi dei suoi giovani in età scolare dentro il perimetro dell’istruzione secondaria agevolandosi sostanzialmente di strutture scolastiche con fondamenta ben piantate nel tempo e a voler dire la verità, tutta intera, ben prima della nascita della Repubblica.
Accanto a questa marginalità delle riforme Berlinguer e Moratti rispetto alla linea della scolarizzazione novecentesca, cui i due progetti non sono in grado di aggiungere granché, bisogna poi tenere conto di un altro elemento che caratterizza il ciclo riformistico del decennio 1996-2005. Il fatto cioè di avere la testa saldamente dentro gli anni Settanta. In quei dibatti sulla riforma della scuola secondaria nati intorno alle illusioni e alle ambizioni del decennio, a partire dal tratto che le contraddistingue entrambe. Voglio dire, il loro gigantismo, la pretesa di ridefinire dalle fondamenta l’impalcatura generale del sistema scolastico. Un tratto “gentiliano”, riconoscibilissimo nelle ambizioni dei titolari dei due progetti riformatori, se non fosse per il deciso fraintendimento del rapporto tra scuola e storia d’Italia che aveva ispirato l’illustre predecessore.
Comincia da qui una storia che ci riguarda da vicino. Tra anni Novanta e Duemila, come ho detto, l’Italia repubblicana porta a compimento il cammino secolare che ha accompagnato l’uscita dei ceti popolari dal recinto della scuola degli elementi e la loro conquista delle sponde dell’istruzione secondaria, inferiore e poi superiore. La scuola repubblicana, in altri termini, raggiunge il suo scopo e con questo anche esaurisce il suo compito.
Qual è, adesso, il nuovo mandato dell’istruzione nazionale?
Possiamo interpretare questi ultimi venti anni e da ultimo il progetto Renzi di scuola come il tentativo, sempre fallito per la verità, di trovare un nuovo modello scolastico in vista di un tempo che si presenta con problemi educativi che sono anch’essi largamente inediti.
Questa ricerca è avvenuta in un contesto segnato da due elementi fondamentali. Da un lato, il disimpegno ideologico dello Stato sul terreno dell’istruzione: lo Stato, in altri termini, ha perso interesse a definire i contenuti dell’insegnamento. Mentre invece rivela uno spiccato tratto interventista, asfissiante, sul fronte delle tecniche di gestione. L’unica esigenza che l’apparato pubblico avanza nei confronti della scuola è che il suo dispositivo, quale che sia, funzioni senza intralci.
Dall’altro, e in stretta relazione con il punto precedente, l’accettazione di fatto, vale a dire non tematizzata, non portata alla consapevolezza del discorso pubblico, anzi occultata dietro uno strato spesso di retorica democraticista, l’accettazione, dicevo, che all’interno del sistema operi un principio strutturale di diseguaglianza.
La scuola è comprensibile ormai solo in quanto affare dei privati, è un investimento delle famiglie in funzione dei loro orientamenti carrieristici. Di qui, ad esempio, il largo spazio fatto in questi anni all’ingerenza dei genitori nella vita scolastica, sempre più pervasiva e sugli aspetti minuti del quotidiano, dalla didattica alla valutazione fino alle scelte educative generali del singolo istituto.
Ma se non tutte le famiglie sono uguali, con ogni evidenza non lo sono le scuole che ne diventano l’espressione. In questo senso, l’intero apparato di valutazione vale come “segnale” del rischio del compratore quando, decidendo di iscrivere il proprio figlio in un determinato istituto con un certo punteggio, compie un vero e proprio investimento.
Sotto la pressione di questi due elementi abbiamo assistito in questi ultimi anni ad un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra scuola e Paese. Mentre il Novecento è stato dominato dall’idea della scuola come avamposto dell’azione educativa dello Stato, chiamato letteralmente a conquistare allo spazio dell’alfabeto e poi della cultura superiore il vasto territorio dell’incultura popolare; oggi prevale una logica diversa, capovolta appunto: da un lato, una scuola di massa, a gestione pubblica e a basso regime educativo, destinata al trattamento di una moltitudine sommariamente scolarizzata; dall’altro, il circuito di istituzioni ancora finanziate dallo Stato ma da questo autorizzate a sganciarsi di fatto dal sistema nazionale di istruzione e a funzionare come istituti privati, che pensano la loro offerta in funzione delle esigenze di un’utenza scelta e desiderosa di conquistare ai loro figli un deciso vantaggio competitivo sugli altri.
C’è in questo modo di concepire il funzionamento dell’istruzione un evidente pregiudizio da first class society e una clamorosa sottovalutazione delle dimensioni politiche dell’istruzione. Per non parlare dell’assunto, privo di qualsiasi fondamento, che i livelli di alfabetizzazione delle società avanzate siano irreversibili. Ma il punto è proprio la natura politica della scuola. Esposta com’è ad una radicale riscrittura delle coordinate della cittadinanza democratica, sotto la pressione dell’immigrazione, la società italiana si trova ad affrontare la sua trasformazione priva di strumenti educativi strategici, quella scuola cioè che per tutto il Novecento ha interpretato la sua funzione come iscrizione dell’individuo all’interno di uno spazio culturale concreto.
Di questi due elementi che definiscono il nuovo spazio educativo e scolastico al passaggio tra ventesimo e ventunesimo secolo, il progetto del governo Renzi condivide insieme l’illusione efficientista (i più veloci andranno più lontano) e il fastidio evidente per la dimensione burocratica della scuola nazionale da trattare con gli strumenti adeguati, e cioè altrettanto burocratici. In maniera particolare, ciò che ne caratterizza l’impegno è ancora una volta la totale disattenzione al tema dei programmi (si pensi soltanto al buco nero che sono gli istituti professionali) e la drastica riduzione del problema degli insegnanti alle condizioni della loro impiegabilità. Nella convinzione sbagliata che le parti più dinamiche della società italiana sapranno darsi la scuola all’altezza delle loro esigenze. Per tutti gli altri bastano tablet e un po’ di inglese.