Martedì 24 l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) ha presentato il secondo Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca: il rapporto, che sarà in linea nei prossimi giorni (www.anvur.it), conta un migliaio di pagine, e consente di misurare lo stato di salute delle università e degli istituti di ricerca. Il sistema dell’alta formazione italiana è costituito prevalentemente dalle università, 91 atenei (61 statali, che raccolgono circa il 90% degli iscritti, 19 privati e 11 telematici), a cui si aggiungono le 140 istituzioni di alta formazione artistica e musicale (Afam), che raccolgono quasi 90mila studenti. 



In un universo così articolato, non è facile identificare gli aspetti salienti, anche se alcuni elementi si possono sottolineare.

1. E’ tuttora in atto una consistente semplificazione: i corsi, che nel 2007/2008 erano 5.875, si sono ridotti del 22%, e ne restano attivi 4.586. Sono sempre molti, ma è probabile che ci si sia assestati su di un numero realistico, perché sono stabili da quattro anni. I corsi a numero programmato sono circa un quinto, e i corsi in inglese (del tutto o parzialmente) sono poco più di cinquecento, il che ostacola  gli obiettivi di internazionalizzazione. L’università italiana è poco attrattiva sia per gli studenti Erasmus che per gli studenti stranieri, tra cui sono però computati i giovani di seconda generazione che hanno studiato in Italia. Gli studenti in entrata sono il 68% di quelli in uscita, e 15,5% nei dottorati, il che significa che l’università italiana non sa trattenere le sue “risorse pregiate”, e non ne attira da fuori.



2. Si stanno manifestando due tendenze positive: si è arrestato il calo degli immatricolati, con modesti sintomi di ripresa negli ultimi due anni, ed è migliorata la regolarità degli iscritti, con un calo degli “abbandoni precoci”, entro il secondo anno — che però restano quasi uno su cinque immatricolati — e con un leggero aumento nelle triennali dei laureati in corso. L’Italia resta nettamente al disotto della media Ocse: i tassi di ingresso sono rispettivamente di 0,41 per l’Italia e 0,60 per l’Ocse, i tassi di completamento 0,58 e 0,70, e quindi i laureati attesi per ogni popolazione di diplomati sono 24 su cento per l’Italia e 41 su cento per la media dei paesi Ocse. 



E’ quindi prioritaria l’esigenza di identificare le cause del fenomeno, per porvi rimedio: il Rapporto ne india due, la mancanza di offerte specifiche per studenti “maturi” (e qui sarebbe importante capire il ruolo degli atenei telematici, più flessibili, come competitori degli atenei tradizionali), e l’aumento degli studenti stranieri, che hanno meno probabilità di iscriversi all’università. L’andamento di questi due indicatori di ripresa resta differenziato per zone, con uno svantaggio del Sud (in cui un diplomato su quattro si sposta al Centro Nord), e per diploma, con un’altissima dispersione per gli studenti provenienti dagli istituti professionali: nelle triennali dopo tre anni ha abbandonato quasi la metà degli iscritti.   

3. Le differenze di genere sono state superate: fra gli studenti la percentuale di ragazze è salita al 55%, e le donne sono in maggioranza anche fra i laureati e nei dottorati di ricerca. Fra i docenti la presenza femminile cresce in maniera costante, con 37 donne ogni cento docenti (la quota media dei paesi Ocse è 42): tenendo conto dell’età media elevata dei docenti italiani, attualmente circa 53 anni, si può immaginare che nel giro di pochi anni saremo allineati alla media. I rettori donna sono però ancora una minoranza, e il sito della Crui ne elenca cinque su ottanta…

4. Quanto alla “produttività” dei ricercatori, se si confronta con le magre risorse impiegate, l’Italia è al livello della Germania, e al disopra dei valori medi europei. Il calo dei docenti, che nel 2008 avevano raggiunto un massimo di 62.753 a motivo del blocco del turn over, è stato continuo e sensibile, e i 50.369 docenti in servizio nel 2015 sono solo parzialmente integrati da 4.608 ricercatori a tempo determinato. Circa la metà dei candidati all’abilitazione nazionale l’hanno conseguita, 12mila candidati hanno per la prima fascia, e circa 6mila per la seconda fascia. Ma capovolgendo il detto evangelico, molti sono gli eletti ma pochi i chiamati: sono stati messi a concorso circa 3mila posti, di cui il 90% per gli associati, e il meccanismo per cui il costo di un professore esterno è molte più elevato ha fatto sì che gran parte dei chiamati fossero già presenti in ateneo al livello inferiore.  

Il rapporto evidenzia poi una serie di punti critici, legati prevalentemente ai tagli alle risorse. 

A) La quota del Pil dedicata alla spesa in ricerca e sviluppo è rimasta stabile nell’ultimo quadriennio su valori molto inferiori alla media dei paesi dell’Unione Europea (2,06% per Ue 15 e 1,92% per Ue 28) e dell’Ocse (2,35%): l’Italia con 1,27% si colloca solo al 18° posto. Il diritto allo studio risente delle differenze tra le regioni, e per la riduzione del Fondo di Finanziamento ordinario gli atenei faticano a programmare e a finanziare le proprie attività. La mancanza di fondi induce molti giovani, in mancanza di prospettive, a lasciare la carriera universitaria o a proseguirla all’estero, drenando le risorse investite (portare alla laurea uno studente comporta un investimento nell’ordine dei 150/200mila euro a seconda del corso di studi), con una dinamica che è tipica dei paesi in via di sviluppo. Si può parlare di “fuga dei cervelli” e non di semplice mobilità, perché mancano i corrispondenti flussi in entrata. Si è già detto, infine, del permanere del divario tra atenei delle diverse macroregioni del paese, che si è allargato a causa della mancanza di politiche volte a promuovere la qualità e ridurre gli squilibri, anche ridimensionando talune distorsioni dell’offerta, con l’adozione (seppure parziale) del costo standard. Si sta cercando di utilizzare a questo scopo la premialità, che invece viene accusata di distruggere, in base a qualche losco disegno, l’università e la ricerca nel Sud. 

B) Le politiche educative sono un punto debole del sistema italiano, e le molte riforme che si sono susseguite, spesso non supportate dai necessari finanziamenti, hanno causato perplessità e disaffezione negli atenei e fra i docenti. Il relatore, Daniele Checchi, ha avuto parole di lode per la “disponibilità del sistema a sottoporsi a procedure di valutazione e responsabilizzazione”, benché le risorse a disposizione fossero “decisamente insoddisfacenti se rapportate al contesto internazionale”. La mia personale esperienza all’interno di Anvur mi induce però ad una minore ottimismo, perché ho constatato resistenze tenaci se non una malcelata ostilità nei confronti della valutazione, piuttosto che una disponibilità a collaborare per migliorare il sistema, ma si può sperare che una volta partiti, e aggiustato il tiro su alcuni aspetti negativi, questa collaborazione effettivamente si generalizzi. 

C) Continua a mancare una differenziazione tra indirizzi: la lotta alla dispersione passa anche dalla capacità di ampliare l’offerta non accademica, oggi limitata a poche decine di migliaia di studenti iscritti ai percorsi di formazione tecnica superiore. Il diploma universitario, che aveva costituito un apprezzabile e apprezzato tentativo di superare il pregiudizio accademico, è stato abolito senza una seria valutazione degli esiti. Il settore delle Afam, che con accademie pubbliche e private e conservatori potrebbe costituire un polo di attrazione per studenti stranieri, è in attesa di regolamentazione da sedici anni, e comprende istituzioni di qualità disomogenea. Il settore sta cercando di organizzarsi, ad esempio proponendo per i corsi di fashion meccanismi di accreditamento da parte di professionisti, ma in mancanza di un assetto definitivo, che Mancini ha promesso pubblicamente (ma su cui nutro un certo scetticismo, visto che da quando me ne occupavo io quasi nulla è cambiato)  anche queste meritorie iniziative rischiano di avere poco spazio.

Quanto al ruolo dell’Anvur, estensore del Rapporto, ma soprattutto Agenzia che si propone attraverso la valutazione di migliorare l’offerta di istruzione di terzo livello, il nuovo presidente, Andrea Graziosi, ha notato per l’ennesima volta che “la struttura dell’Anvur è decisamente inadeguata per l’insieme estremamente ampio di attività che le competono”, soprattutto confrontata con analoghe agenzie straniere. Nonostante ciò, i membri del consiglio direttivo e i ricercatori sono riusciti ad avviare un processo che, sia pure con correzioni e adeguamenti, sembra irreversibile. 

Questa è l’impressione che ho avuto da “interna” alla presentazione del primo rapporto e da “esterna” alla presentazione del secondo: e mi auguro che sia così, per la salute complessiva di un’università che più di ogni altra istituzione ha il compito di valorizzare l’insostituibile capitale umano costituito dai giovani, capitale che sarebbe folle, oltre che iniquo, sprecare.