Potrebbe trattarsi di una felice inversione di tendenza: invece dei soliti tagli alla ricerca scientifica ora si passa agli stanziamenti, e di una certa consistenza. È questo il messaggio sintetico che emerge dalla presentazione avvenuta ieri del Programma nazionale della ricerca, il documento preannunciato da tempo, che stanzia 2.438 miliardi per gli investimenti pubblici destinati appunto alla ricerca scientifica per il periodo 2016-2018.



Qualcuno ha già obiettato che non è nulla di nuovo: il documento riprende un piano presentato dall’ex ministro Maria Chiara Carrozza all’inizio del 2014, poco prima che finisse il governo Letta e che è rimasto in stand by per 28 mesi, bloccato da rinvii, polemiche e ostacoli vari. Obiezioni inutili di fronte al fatto positivo che ora il piano parte davvero. Come? La cifra indicata è ripartita in sei macro-programmi, con la significativa percentuale del 42% dedicata al Capitale umano, seguita da un 20% per la Cooperazione pubblico-privato e la ricerca industriale, un 18% per il Mezzogiorno, un 14% per le Infrastrutture di ricerca, un 5% per l’Internazionalizzazione e il restante 1% per l’Efficienza e qualità della spesa.



È interessante esaminare come il piano si articoli in programmi e azioni, per capire se siamo realmente in un momento di evoluzione e di apertura di prospettive. Non vengono individuate priorità tra le diverse discipline ma vengono indicate dodici aree per le quali si ritiene che il nostro Paese abbia notevoli chance da giocare e possa produrre i risultati migliori, soprattutto se saprà attuare progetti di collaborazione tra pubblico e privato. Le dodici aree sono peraltro coerenti con le scelte attuate a livello europeo nell’ambito del programma quadro Horizon 2020.

Si tratta di: Aerospazio, Agrifood, Blue Growth (economia del mare), Chimica verde, Design, creatività e made in Italy (non R&D), Energia, Fabbrica intelligente, Mobilità sostenibile, Salute, Smart Communities, Tecnologie per gli Ambienti di Vita, Tecnologie per il Patrimonio Culturale. A loro volta, ed è un aspetto innovativo, queste vengono raggruppate su quattro livelli di importanza. Vengono considerate prioritarie Aerospazio, Fabbrica intelligente (nota anche come Industria 4.0), Agrifood e Salute; sono dette ad alto potenziale Design, Chimica verde, Tecnologie per il Patrimonio Culturale e Blue Growth; sono aree in transizione le Smart Communities e le Tecnologie per gli Ambienti di Vita; infine sono indicate come “consolidate” Energia e Mobilità sostenibile. Sembrerebbero ben rappresentate e armonizzate le esigenze di stare al passo col progresso tecnoscientifico e quelle di esprimere le nostre potenzialità e peculiarità.



La maggior parte delle osservazioni critiche, alcune anche pesanti, si sono indirizzate sull’entità degli stanziamenti e sui meccanismi di raccolta e distribuzione. Ma non si poteva certo pensare che un ministero complicato, burocratizzato e appesantito da anni di incapacità a far realmente decollare la ricerca nel nostro Paese, di colpo diventasse snello, lungimirante ed efficace.

Certo questi soldi non bastano ancora e siamo ancora lontani dal traguardo di portare al 3% sul Pil la percentuale di stanziamenti per la ricerca; un traguardo indicato nella petizione lanciata nei giorni scorsi dal fisico Giorgio Parisi e che sta raccogliendo migliaia di adesioni. In ogni caso non si tratta di un obiettivo fantasioso, visto che alcuni Paesi lo raggiungono già (Svezia, Finlandia, Giappone, Usa…) e che comunque la media europea è intorno al 2%.

Soprattutto i soldi non basteranno se il piano finanziario non sarà accompagnato da una ben più impegnativa azione culturale. Questa sì è una tendenza che in Italia non si riesce a invertire: continua a persistere un’idea di scienza come qualcosa di lontano dalle vere esigenze dell’uomo, stretta tra gli scogli di un arido formalismo e di un acritico asservimento a logiche di mercato; permane la difficoltà di dare alla ricerca tutta la sua dignità conoscitiva e tutta la sua carica umanizzante, così che il lavoro scientifico possa essere riconosciuto come prezioso servizio alla società prima ancora che per i suoi risultati immediati.

Solo questo può far compiere i due passi decisivi per un reale mutamento di rotta. Da un lato valorizzare adeguatamente le notevoli risorse di ingegno e di creatività ancora molto presenti tra i nostri giovani e ampiamente apprezzate nell’ambito dei progetti internazionali: basta fare un giro al Cern o esaminare i programmi dell’Esa (Agenzia Spaziale Europea) per sentire affiorare ovunque l’impronta della formazione scientifica made in Italy.

Dall’altro, dare fondamento e consistenza culturale riconoscibile ai grandi programmi, specie quelli più innovativi e di frontiera che, pur essendo specialistici, paradossalmente richiedono non solo competenze settoriali ma soprattutto visione, ideali, conoscenze di fondo: basti pensare alle bioscienze e a tutte le loro implicazioni etiche, sociali, giuridiche…

Senza compiere in modo deciso questi due passi, risulta un po’ difficile pensare alla piena attuazione delle linee d’azione che il piano prevede e in particolare di quella che assorbe la parte maggiore del budget e cioè quella dedicata al Capitale umano, che “mette al centro della strategia le persone della ricerca pubblica e privata, con l’obiettivo di formare, potenziare, incrementare il numero dei ricercatori, creando un contesto e delle opportunità in grado di stimolare i migliori talenti e renderli protagonisti della produzione e del trasferimento di conoscenza alla società nel suo complesso”.