Si moltiplicano le ricerche sui fattori che possono migliorare il livello di istruzione della popolazione: fin dalle prime edizioni di Pisa fra questi fattori era stata individuata la frequenza a forme di istruzione prescolare. Del resto, negli Usa già dell’immediato secondo dopoguerra erano partiti progetti in tal senso nei confronti della popolazione afro-americana.



La Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) ha rilasciato nei giorni scorsi il rapporto finale dello studio Eces 2016 (Early Childhood Education Study) finalizzato ad analizzare l’offerta di servizi per l’infanzia e il loro ruolo nell’avviare i bambini all’apprendimento e più in generale alla convivenza civile. Dopo il trionfo all’inizio del secolo di Ocse con il successo di Pisa, l’Iea, l’associazione di accademici che ha dato il via nella seconda metà del secolo scorso alle valutazioni internazionali comparate, sta cercando di recuperare terreno con ricerche di nicchia o di avanguardia, misurandosi fra l’altro con le nuove forme di valutazione comparata standardizzata nei paesi in via di sviluppo che i donors internazionali — World Bank ed agenzie Onu — stanno varando per appurare la ricaduta effettiva dei loro investimenti.



Eces ha realizzato una sintesi delle politiche di otto Paesi nell’ambito dell’educazione dell’infanzia, dalla nascita fino all’inizio della scuola primaria. I Paesi aderenti allo studio sono stati: Cile, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Italia, Polonia, Federazione Russa e Stati Uniti.

Gli otto casi-Paese illustrano alcuni dei diversi approcci alle politiche sull’educazione dell’infanzia a livello internazionale e anche i cambiamenti recenti in proposito o le cause che impediscono cambiamenti nei diversi contesti. 

Le aree esaminate sono: le politiche pubbliche, l’offerta e tipologia di servizi, la partecipazione e iscrizione dei bambini, i sistemi di monitoraggio e assicurazione della qualità, le aspettative rispetto agli esiti, le qualifiche degli insegnanti e degli operatori e loro opportunità di sviluppo professionale ed infine gli approcci pedagogici e curricolari.



Le conclusioni: la formazione prescolare è stata negli ultimi anni fortemente incrementata e finanziata, secondo però modalità molto differenziate. Anche nei paesi con un’impostazione accentrata e statalista della gestione dell’istruzione, questa fase è caratterizzata da un intreccio di interventi e finanziamenti pubblici e privati con anche una significativa presenza del mercato. Questa situazione porterebbe a difficoltà di accesso da parte di tutti i bambini.

La linea di demarcazione sono i 3 anni: nella maggior parte dei paesi si tratta di due tranches (prima e dopo), in pochi altri invece c’è continuità. Soprattutto prima dei tre anni i gestori sono molteplici, per lo più locali e questo porta a grandi variazioni nelle modalità di organizzazione del servizio fino ad arrivare a quello “home-based”. Secondo il rapporto la variabilità offre possibilità di scelta, ma causa anche mancanza di equità. In realtà, anche nei paesi analizzati, che si suppone essere sensibili al tema vista l’adesione alla ricerca, non c’è un accesso universale. 

Rimane infatti ancora una sfida l’iscrizione da parte disabili o da parte di famiglie a basso reddito. L’accesso aumenta in relazione alla vicinanza temporale all’entrata nella scuola primaria, pur se, anche in questo periodo, non si registra una partecipazione totale dei bambini in età. 

Tutti i paesi cercano di garantire e migliorare la qualità del servizio, prima di tutto nel campo della salute, della sicurezza e della protezione, soprattutto attraverso le ispezioni, più ancora che attraverso gli accreditamenti.

Dal punto di vista degli obiettivi, prevalgono in generale quelli relativi alla salute ed al benessere dei bambini, soprattutto prima dei tre anni; dopo questa soglia in alcuni paesi sono presenti indirizzi “curriculari” anche relativi agli apprendimenti.

Gli indirizzi curriculari sono finalizzati allo sviluppo di abilità personali, sociali ed emozionali; alcuni sistemi suggeriscono o raccomandano il tipo di approccio, ma la maggioranza prevede libertà per gli educatori. Sopra i tre anni spesso vengono date indicazioni circa contenuti di apprendimento, approcci pedagogici, obiettivi di apprendimento e modalità di valutazione. Nessun approccio pedagogico sembra essere privilegiato, ma vi sarebbe una convivenza delle pedagogie di stampo “progressivo” con quelle di tipo “accademico”. L’opinione del rapporto è che un’impostazione di tipo curriculare necessiti di essere estesa anche sotto i 3 anni. Da questo quadro dell’esistente si può dedurre che le aspettative sui risultati dei bambini non si focalizzano su risultati limitati alla prelettura ed alla prescrittura o alla pre-matematica, ma prevedono un arco ampio di sviluppo socio-emozionale. 

Non vengono in generale condotte valutazioni formali e nazionali, ma valutazioni degli operatori con forme miste di osservazione qualitativa e di standardizzazione, che vengono diffuse in modo molto vario anche con strumenti informatici. Tuttavia le politiche dei diversi paesi in proposito sono molto diverse, perché vi sono molte opinioni fortemente contrarie alla valutazione in questa tranche della formazione. 

Fin qui il rapporto Eces. A che riflessioni può portare? 

Prosegue la tendenza ad un’estensione e formalizzazione dell’istruzione come possibile via per il progresso dei popoli: prolungamento dell’obbligo, formazione permanente, formazione precedente, come in questo caso. Oltre che in profondità per le popolazioni dell’Occidente, la tendenza si sta estendendo in ampiezza, attraverso gli interventi economici degli organismi internazionali. Il postulato non è solo l’identificazione di istruzione con sviluppo umano e democrazia, ma anche che l’istruzione è necessaria ed automatica portatrice di sviluppo economico (si veda la teoria del capitale umano, oggi peraltro un po’ messa in discussione).

Il forte ruolo che viene attribuito all’istruzione ci deriva dalle teorie pedagogiche di derivazione illuminista fortemente sviluppatesi dall’inizio del secolo scorso. L’istruzione sarebbe in grado, se adeguatamente gestita con le metodologie giuste ed i finanziamenti adeguati, di forgiare in senso positivo l’umanità, superando limiti economici e barriere culturali, intese come mero sottosviluppo. Tuttavia la realtà degli ultimi decenni sta insinuando qualche dubbio su questo postulato, che fino a poco tempo fa sembrava indiscutibile. 

Pisa continua a registrare, anche nei paesi Ocse, la persistenza di uno zoccolo duro costituito da quindicenni a basso livello di alfabetizzazione, nonostante gli investimenti economici e le riflessioni dei pedagogisti. Nei paesi in via di sviluppo destinatari di forti investimenti internazionali l’accesso formale alla scuola di base sembra ormai quasi universale, ma anche l’analfabetismo persistente, magari dopo anni ed anni di scuola, non scherza.

Le convenienze per l’istruzione non sono sempre poi così scontate. In Educational and international developmentdi Clive Harber (Oxford ed.), un manuale di comparatistica del campo scolastico, si analizza in proposito la situazione di diversi paesi. Particolarmente interessanti le ricerche sulla Cina rurale, nella quale anche il tasso di accesso rimane basso. Mentre il governo dà grande importanza all’istruzione, dalle popolazioni delle aree rurali la scuola viene vissuta come una perdita di tempo e di risorse. Un po’ perché quella che viene loro assicurata tende ad essere di basso livello e perciò frustrante per ragioni non solo di investimenti economici, ma anche perché, secondo gli adulti, i giovani, non avendo un ambiente in cui effettivamente mettere a frutto quanto appreso, si limitano a diventare pigri ed incapaci, disprezzando e non conoscendo il lavoro dei padri, pur non essendo in grado di assicurarsene un altro o di crearlo. 

Il peso che i popoli ed i singoli danno all’istruzione è storicamente determinato e pensare che una sua sottovalutazione sia un tratto esclusivo della povertà economica e culturale forse non coglie la complessità del problema. Non dobbiamo dimenticare — e se studiassimo la storia lo sapremmo — che i nobili dell’ancien régime consideravano con indifferenza e disprezzo l’istruzione perché non era loro necessaria per mantenere il loro ruolo di classe dirigente. L’istruzione era un must della borghesia, che solo attraverso il fare qualificato poteva (e poté) farsi strada.