Primavera, tempo di gite scolastiche, pardon, di “viaggi di istruzione”, di città d’arte prese d’assalto da orde di studenti, da scolaresche e professori. Ma che porzione di mondo ruota attorno all’evento più atteso dell’anno scolastico, vissuto dagli studenti non solo come occasione formativa e culturale, ma anche — e, talvolta, ahinoi, soprattutto — come occasione di socializzazione, di svago, o, alla peggio (speriamo di no!) di sbrigliamento totale?
Spesso gli studenti, e le famiglie, ignorano il lavoro organizzativo che sta dietro ai viaggi di istruzione.
Per prima cosa: il progetto didattico. La meta dovrebbe essere scelta coerentemente con il percorso di studi affrontato, con il programma dell’anno, con l’età degli alunni (per cui, solitamente, un solo pernottamento in prima e fino a quattro/cinque notti di pernottamento nei viaggi dell’ultimo anno delle superiori), ma, soprattutto, con coerenza rispetto alle condizioni economiche generali. Ovvio che lo studente medio sogna una settimana a Barcellona (o a Londra, o a Berlino: sostituite un nome di città a piacere), ma, specialmente in conseguenza della crisi economica generalizzata, molte scuole hanno deciso di aggiustare il tiro, ridurre il numero dei giorni e scegliere mete dal costo più abbordabile, proprio per consentire alle famiglie di mandare i figli in gita senza svenarsi.
Altro punto dolente: la tempistica. Per partire in primavera, serve un bell’anticipo: solitamente, già nei consigli di classe di ottobre-novembre si inizia a sondare il terreno, a proposito di mete, e, soprattutto, vero punto dolente, di accompagnatori. Sì, perché senza un docente accompagnatore ogni 15 studenti (e senza la presenza di due terzi della classe, essendo il viaggio di istruzione, anche se qualcuno lo dimentica a volte, un’esperienza didattica), non si può partire.
Ed ecco iniziare allora l’operazione persuasione-convincimento-blandimento da parte delle classi, a carico dei professori individuati come potenziali accompagnatori. Come astuti profiler dell’Fbi, i ragazzi sanno benissimo su chi far leva: professori giovani (inesperti dei disastri potenziali che si possono presentare, animati da idealismo, o da sana incoscienza, in grado di fare lunghe sgambate e favorevoli a uscite serali in locali e a spasso per le città); professori maturi, ma preferibilmente uomini (le prof donne ahimè — per loro — entrano presto in un loop di accudimenti multipli — figli, genitori anziani, nipotini — dal quale non possono uscire per anni: non a caso di solito ricominciano ad accompagnare classi in gita, mediamente, dopo i cinquantacinque anni); professori di educazione fisica (sportivi e capaci di adattamento), professori di lingue straniere (indispensabili per mete estere).
Insomma, una volta puntata la vittima, e persuasa a immolarsi volontariamente in quella grande avventura-rito di iniziazione che è il viaggio di istruzione, tutto sta a stilare un programma di massima, e ad aspettare. E aspettare. E aspettare.
Sì, perché di anno in anno la normativa ministeriale che regola i viaggi di istruzione è diventata più stringente: per trasparenza, il conferimento dell’incarico alle agenzie di viaggio viene regolato secondo bandi di gara identici ai grandi appalti pubblici. E, come per ogni appalto, siccome vince chi presenta l’offerta più conveniente, tutti i concorrenti giocano al ribasso, ovviamente cercando sino all’ultimo occasioni, spesso date da rinunce in extremis di altre comitive e scuole. L’encomiabile risultato è che inezie quali la data precisa del viaggio di istruzione, l’orario della partenza, il programma, il nome e la posizione dell’hotel sono spesso, e comprensibilmente in quest’ottica, noti solo in prossimità della partenza.
Finalmente, si parte. Nel faldone che gli viene consegnato, il capo-comitiva (solitamente un prof fededegno e con qualche esperienza di viaggi di istruzione) si trovano, oltre a elenchi delle classi, piantine delle città oggetto di visita, recapiti utili, copia delle prenotazioni, un inquietante documento conosciuto come “nomina”, dove, formalmente, lo si investe (è il verbo corretto, data la mole di responsabilità), di quella che è nota come missione: ovvero accompagnare, custodire gli studenti, essere responsabile del mantenimento dell’ordine, vigilare che i pupi non distruggano camere d’hotel o non danneggino monumenti storici, che non si ubriachino eccetera… 24 ore su 24: “Inizio missione ore 5,30 di lunedì 11 aprile, fine missione ore 22 circa di giovedì 14 aprile”: questo è l’incarico-tipo che il coraggioso si vede recapitare.
E’ di qualche settimana fa la famigerata circolare ministeriale da cui sembrava che il docente accompagnatore fosse responsabile anche della valutazione dello stato tecnico del mezzo: ma ce la vedete una vezzosa prof di francese a ispezionare il motore di un bus? In realtà, la circolare, interpretata correttamente, ribadiva solo — e per fortuna — che non si richiedono ai professori accompagnatori competenze trascendentali, e che nemmeno devono impararsi a memoria il “manuale del piccolo meccanico”: semplicemente, si esplicita che, se il mezzo e chi lo guida sono palesemente inadeguati (se il pullman è una carretta, per esempio: cosa che, nella mia esperienza, non è mai avvenuta), il professore che accompagna la classe in viaggio di istruzione deve fare adeguata e tempestiva segnalazione, perché non si parta in modo avventato e pericoloso per sé e per gli studenti.
Ma, in cambio di cotanto impegno, e di questa responsabilità, da far tremar le vene e i polsi, quale sarà la ricompensa? Quale la ricca diaria? Zero, o quasi: il rimborso spese si aggira sui 20 euro (circa) al giorno, e, in alcuni casi, riguarda solo il giorno della partenza e quello del rientro.
Ma allora, il gioco vale la candela? Assolutamente sì! Certo, se la classe è rispettosa e, non dico composta da mummie — si tratta pur sempre di adolescenti e non di ottuagenari — ma normalmente vivace, si possono, fra l’altro, gettare le basi per consolidare i rapporti umani, e lavorare meglio in classe al ritorno.
E non dimentichiamoci poi della presenza, nelle nostre classi, dei disabili: sono ancora vivi gli echi della polemica per la ragazzina autistica che aveva rischiato di essere esclusa dalla gita di classe. Personalmente, mi permetto di dire che ogni classe è un mondo a sé, con sinergie proprie e con meccanismi che non si possono giudicare a prescindere. Di solito, però, come si semina, così si miete: se il compagno autistico, o portatore di altra disabilità, è davvero integrato nella classe, se si fa per tutto l’anno un lavoro che tocchi e coinvolga gli studenti, se l’insegnante di sostegno è davvero co-titolare della classe (come recita la norma di legge), allora certe situazioni, con un po’ di buona volontà, si possono sempre risolvere. Personalmente, mi è capitata una gita all’estero con un ragazzo affetto da sindrome di Asperger, e tutto è filato tranquillissimamente: certo, si trattava di un ragazzo tranquillo, appassionato di storia, e quindi le premesse erano già buone; e poi, il suo insegnante di sostegno, con cui c’era un bel rapporto, lo seguiva passo passo durante tutto il viaggio, e le classi, a maggioranza femminile, erano molto accoglienti e disponibili con lui. In altri casi, quando la disabilità era così forte e limitante logisticamente da rendere davvero difficilissima la partenza per un viaggio di istruzione, è anche capitato che la compagna meno fortunata venisse “risarcita” dagli altri componenti della classe con l’organizzazione di una gita tutta per lei, cui tutti avevano partecipato. Sto parlando della scuola di Alice in Wonderland? Nient’affatto. Ma a fronte di alcuni episodi negativi che rimbalzano sui giornali, sarebbe bello dare rilievo anche ai casi positivi, che esistono e sono davvero molti.
In gita, oltre a tutte le responsabilità elencate, può sempre capitare di dover gestire situazioni di emergenza, per esempio, una visita a un museo senza prenotazione: provate voi a guidare una carovana, perchè tale è, di un’ottantina di ragazzi, a spasso per le viuzze strette e affollate di una città d’arte, mettendo d’accordo più o meno tutte le anime della comitiva (chi vuole andare all’Hard Rock Café, inspiegabile polo d’interesse adolescenziale, chi preferisce il museo, le ragazze che vogliono guardare le vetrine — sgrunt! — e quelli che chiedono di riposarsi in un parco con un gelato). Se riuscirete nell’impresa, complimenti: sarete ufficialmente patentati in problem solving estremo. Quando si parla di master costosissimi che insegnano ai dirigenti a gestire situazioni di emergenza con creatività e prontezza, e a sviluppare le competenze relazionali, mi viene da ridere: il vero banco di prova sarebbe portarsi a spasso per quattro-cinque giorni una massa di adolescenti dei quali solo una piccola porzione, solitamente, è una nostra allieva.
Superata la prova, si può gestire senza ansia e con professionalità qualsiasi situazione. Ricordate quel film con Kevin Kline, Dave presidente per un giorno (rifacimento del Miser Smith va a Washington con James Stewart)? Lì, il mite ma deciso proprietario di un’agenzia di collocamento, sosia del presidente Usa, con sano buonsenso, risanava in una mattinata, bloc notes e matita alla mano, il bilancio federale, tra lo stupore dei membri del Governo. Ora, non dico di arrivare a tanto, ma diamo fiducia ai nostri insegnanti: sono capaci davvero di lasciare un segno, in positivo.