“L’Italia nel suo complesso è molto migliore di come noi stessi a volte la dipingiamo” ha sottolineato il presidente Mattarella il 2 giugno scorso, in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica. Un concetto già espresso in un precedente intervento al Congresso Internazionale della Società Dante Alighieri in cui aveva osservato che “la percezione che si ha dell’Italia all’estero è decisamente migliore di quella che avvertiamo noi italiani”.



Il presidente Mattarella non è né il primo né l’unico ad aver evidenziato la deplorevole e persistente propensione tutta italiana a disprezzare e screditare il proprio paese e i propri concittadini, specie in presenza di stranieri. Già nel 1919 Carlo Emilio Gadda l’aveva battezzata “la porca rogna italiana dell’auto-denigrazione” cioè “la dilagante attitudine a deprecare noi, il Paese in cui siamo nati, il governo in carica (da chiunque presieduto), la storia passata, le inevitabili noie quotidiane“. E’ una tendenza che non trova riscontro in nessun altra nazione occidentale, e nemmeno tra i paesi cosiddetti in via di sviluppo; nessun cittadino al mondo rappresenta il proprio paese usando i toni abietti e sprezzanti che usano gli italiani nel descriversi. 



Molti studiosi hanno tentato di offrire una spiegazione storica a questo fenomeno, individuando nei secoli di dominazione che l’Italia ha subito l’origine di un endemico complesso di inferiorità verso le altre nazioni sovrane e un retaggio di servilismo che si manifesta nel lodare tutto ciò che è straniero e svilire tutto ciò che è italiano. 

Il problema è che la maggior parte degli italiani è davvero intimamente persuasa di vivere in un “paese disastrato” dove “non funziona mai niente”. Questa convinzione è talmente radicata che se dati ufficiali, elaborati da autorevoli organismi internazionali, sono favorevoli all’Italia non sono ritenuti veritieri e vengono persino contestati. Gli italiani hanno una propensione maggiore di qualsiasi altra popolazione a recriminare e a lamentarsi per ogni disfunzione. Espressioni come “queste cose accadono solo in Italia”, “siamo peggio di un paese del terzo mondo” fanno ormai parte del linguaggio comune. Eppure nessuno è disposto a riconoscersi nel ritratto dell’auto-denigratore; tutti affermano di amare il proprio paese ma di essere solo “realisti” e “obiettivi” nel deplorare lo stato in cui si trova. 



Questa impressione è costantemente alimentata dai media, che proiettano una realtà tutta al negativo arrivando persino a manipolare dati e comunicati per fare apparire la situazione peggiore di quanto non sia. I nostri giornalisti sono, in effetti, l’espressione più evidente della frenesia autodenigratoria che caratterizza la popolazione italiana. Per giustificarsi affermano che “le buone notizie non fanno audience” ma sono probabilmente essi stessi propagatori e, al tempo stesso, vittime del dilagante pessimismo che regna nel nostro paese, in un circolo vizioso perpetuo e deleterio. 

Corrado Augias, in un articolo apparso su Repubblica, ha sottolineato la differenza tra “il diritto/dovere di critica e l’eterno mugugno“, in quanto “le critiche, se ripetute a proposito e a sproposito, logorano, perdono di efficacia, diventano un piagnisteo insignificante“. 

Concetto ripreso da Claudio Magris, in un articolo uscito sul Corriere della Sera intitolato “Che noia il disfattismo all’italiana” nel quale ribadisce che “qualsiasi paese è afflitto da magagne, sciagure e storture. Occuparsene e denunciarle in modo circostanziato è, oltre che doveroso, utile. Ma tutto ciò è profondamente diverso dal ritornello autodenigratorio che si configura come disfattismo all’italiana, vero vizio nazionale, e che incrementa i mali d’Italia. Riconoscere un discorso disfattista è facile perché non prevede controesempi virtuosi. Smontare il disfattismo è più difficile, ma saperlo individuare è già un buon primo passo“.

Tuttavia gli italiani non sembrano capaci di compiere questo primo passo e di comprendere che esiste una notevole differenza tra il riconoscimento consapevole e distaccato delle criticità, cercando soluzioni concrete per risolverle e valutando obiettivamente anche le positività, e la predisposizione a considerare ogni aspetto della società sotto una perenne lente di negatività quasi patologica. 

Il “disfattismo all’italiana” fa leva sul coinvolgimento emotivo dell’indignazione e dell’autocommiserazione che ha il doppio vantaggio di essere gratificante e autoassolvente: “è così e non posso farci niente”. Al tempo stesso, però, provoca  una sofferenza psicologica che è stata paragonata al rimuginio rabbioso (nel rimuginio i pensieri sono ripetitivi e focalizzati su contenuti negativi). Uno studio di Eurodap sostiene che il 90% degli italiani vive in un costante stato di ansia e di tensione e ricerche condotte presso la Stanford University hanno evidenziato che ascoltare, per più di 30 minuti al giorno, contenuti intrisi di “negatività” nuoce a livello cerebrale. Anche le tipiche conversazioni tra colleghi alle quali siamo ormai assuefatti: “Non se ne può più!”, “Qui non cambia mai niente!”, “Bisogna scappare via da questo Paese!” incidono sfavorevolmente sul nostro umore con un effetto deprimente che di fatto invalida la nostra capacità di reazione e la nostra determinazione nell’affrontare problemi. 

Tutti i leader politici italiani si trovano a dover affrontare, prima o poi, la “porca rogna dell’auto-denigrazione” da parte della stampa, riecheggiata dalla cittadinanza attraverso i social network. Il Premier Renzi ha più volte esortato i media ad essere meno disfattisti e prima di lui Enrico Letta, in un discorso alle truppe italiane di stanza a Kabul, aveva detto: “Torno a Roma con più determinazione di quando sono partito, affinché l’autolesionismo non sia il sentimento con cui si racconta l’Italia … perché l’autolesionismo è il peggior difetto degli italiani”. Negli anni passati anche Berlusconi aveva lamentato in diverse occasioni il disfattismo gratuito da parte dei media di opposizione, suscitando però accuse di un rigurgito della censura di regime da parte degli stessi che oggi deplorano l’auto-disfattismo all’italiana. 

La mancanza di una coscienza nazionale in Italia è stata oggetto di studi anche da parte di osservatori stranieri, come l’antropologo statunitense Edward Banfield che nel 1958 coniò il termine “familismo amorale” per spiegare le carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese e, successivamente, Ginsborg lo recuperò e ne ampliò la portata fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”; egli attribuisce infatti al familismo, non solo amorale ma palesemente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che nelle scienze sociali è definito civicness. 

E’ davvero singolare che, pur riconoscendo e denunciando questa anomalia italiana da anni, nessun governo abbia mai tentato di trovare soluzioni concrete per contrastarla. Di solito la mancanza di unità nazionale è imputata alla relativa giovinezza della Repubblica italiana ma nessuno si è mai interrogato sulle modalità con cui le altre nazioni sono invece riuscite a creare un senso di unità nazionale. 

Una nazione non si crea definendone i confini e uniformandone le istituzioni. L’unità nazionale è innanzitutto un sentimento, uno stato d’animo, una unione di intenti e di ideali derivante dalla consapevolezza di un passato comune e di un futuro da costruire insieme. In Italia questo sentimento non c’è, non è mai esistito, e nessuno ha mai tentato di crearlo. Il senso di appartenenza e di lealtà verso il proprio paese ed i propri compatrioti non sono sentimenti che nascono spontaneamente, devono essere insegnati e coltivati. 

In tutti i paesi europei con una forte consapevolezza identitaria, come la Francia, la Germania o l’Inghilterra, la scuola è intesa anche come luogo in cui infondere un sentimento di amore e di rispetto verso il proprio paese e di sano orgoglio per le sue realizzazioni, inculcando nei giovani la consapevolezza che il rispetto e la credibilità di cui gode una nazione si riflette su ciascuno dei suoi cittadini, cosicché tutti si sentano vincolati a salvaguardarne il prestigio e l’immagine. 

Come ha giustamente osservato Scotto Di Luzio, “attraverso la scuola, attraverso le cose che si insegnano, passa un’idea generale di noi, di quello che vogliamo essere e del modo in cui vogliamo stare dentro il nostro spazio politico. Non c’è comunità politica senza un accordo generale su ciò che ci tiene insieme“.  

In Italia, mentre il ‘900 era stato dominato dall’idea della scuola come avamposto dell’azione educativa dello Stato, il Governo ha gradualmente abdicato alla responsabilità di definire i contenuti dell’insegnamento, dimostrando una sconcertante sottovalutazione delle dimensioni politiche dell’istruzione. Una nazione, per dirsi tale, deve essere capace di elaborare un’azione concertata ed organica di ampio respiro che miri a trasmettere e coltivare nei futuri cittadini sentimenti di solidarietà e renderli consci delle responsabilità morali, civiche e sociali che hanno nei confronti dei propri concittadini, della propria patria e dell’intera umanità; devono comprendere che non possono essere solo le istituzioni a “costruire” il paese ma che serve un processo che si muova in entrambe le direzioni e che veda tutta la popolazione impegnata attivamente per migliorare lo Stato. Qualsiasi governo, seppure ottimo, non riuscirà mai a riqualificare la nazione senza il sostegno di masse sociali che condividono la stessa visione e che si sentono coinvolte in un progetto comune. 

Soprattutto occorre ribaltare l’immagine che del paese viene continuamente trasmessa all’opinione pubblica italiana (e straniera). Dobbiamo valorizzare i nostri punti di forza, non solo affliggerci e compiangerci per le nostre debolezze. E’ necessario comunicare messaggi positivi in grado di creare fiducia, le critiche dovrebbero essere costruttive, non distruttive. 

In poche parole, gli italiani devono imparare ad amare e apprezzare il loro Paese e questo insegnamento deve essere incluso nei contenuti dei programmi di educazione civica. Ovviamente non stiamo parlando della propaganda mielosa e autocelebrativa dei regimi totalitari, ma di trasmettere una visione più corretta e obiettiva della realtà in cui viviamo, attraverso documentari, progetti e programmi di approfondimento affinché le nuove generazioni conoscano le numerose eccellenze che ha prodotto e produce l’Italia. 

Questo è un compito che il Governo deve assumersi, non per patriottismo, ma per un mero senso di giustizia e di equità verso il paese e tutti gli italiani, al fine di non tradire e vanificare l’impegno di tutte le generazioni che hanno operato per regalarci un futuro migliore.