Caro direttore,
l’anno scolastico 2015/2016 passerà alla storia come l’anno del varo della Buona Scuola e un bilancio bisogna cominciare a farlo, ora che il primo anno sta finendo e si può essere più puntuali nel valutare il percorso fatto, le sue promesse, quelle mantenute e quelle andate deluse.
Ciò che balza immediatamente agli occhi di tutti è quanto sia difficile dare una valutazione sintetica della Buona Scuola perché ognuno si è fatto la sua idea e alla fine, dopo un anno di scuola, se si chiedesse cosa sia mai la Buona Scuola, si sentirebbero le risposte più disparate. E il fatto — forse — è proprio questo: non si sa bene cosa sia la Buona Scuola. E’ che sono stati immessi in ruolo tanti precari? E’ che la scuola è valutata sul merito? E’ che è diventata obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro? E’ che si valutano le competenze e non più i contenuti? E’ che la scuola finalmente è ben pianificata?
Probabilmente non è nessuna di queste cose e nello stesso tempo è tutte queste cose insieme. Sta di fatto che la Buona Scuola è difficilmente definibile, probabilmente perché manca una base culturale su cui si regge e finisce con l’essere solo una buona riorganizzazione del sistema.
Questo è forse il problema serio della Buona Scuola: manca in essa un’impostazione culturale ed educativa, per cui si deve di fatto rifondarla identificando i principi su cui costruirla. Non spetta a noi rifondarla, noi docenti che l’abbiamo vissuta possiamo dire quello che ci è rimasto di un anno d’esperienza, così che possa servire per rilanciare la sfida da cui l’anno è cominciato.
Di fatto quella che Renzi ha lanciato è stata una sfida interessante e significativa: il premier ha dato una bella scossa alla scuola, lo ha fatto con l’assunzione di tanti precari, con l’introduzione di un inizio di valutazione basato sul merito, con la centralità delle competenze; di fatto delle piccole rivoluzioni che hanno smosso un ambiente abituato a procedere a ritmi lenti e in modo ripetitivo. Renzi ha messo alla frusta il contesto scolastico obbligandolo ad “inseguire”; e i tanti giovani inseriti ad insegnare sono un esempio per tutti, trattandosi di personale giovane e con tanta voglia di fare in un ambiente dove tutto è prestabilito. Si tratta di professionisti che devono inventarsi il lavoro, perché molti di loro non hanno la classe e devono ingegnarsi per trovare che cosa poter fare e all’altezza delle loro capacità.
Dunque è un merito di Renzi aver dato una scossa al sistema, perché questo apre ad una scuola nuova, quella in cui non si esegue più, ma quella in cui il lavoro lo si crea. C’era bisogno di una scossa di questo tipo, poco importa che al ministero non ci sia nessuno capace di riportare l’ordine; meglio un grande disordine che l’acqua stagnante e viziata di una palude.
Riconosciuto a Renzi di avere smosso finalmente il sistema, rimane aperta la domanda seria: qual è la cultura della Buona Scuola? E’ una domanda cui quest’anno non si è dato risposta, anche perché il rischio è stato spesso quello di identificare la Buona Scuola con la scuola delle regole e — di conseguenza — con le formalità connesse: vi è stato un incremento verticale di burocrazia.
Ma non sono le regole a definire il volto di una scuola. Le regole ci devono essere, ma una scuola delle regole è quanto di più deprimente ci possa essere perché le regole non fanno maturare la persona. Se la Buona Scuola non è la scuola delle regole allora che cos’è?
La risposta la possiamo trovare dentro l’esperienza fatta. Ciò che ha segnato il percorso fatto quest’anno non è stata nessuna delle innovazioni introdotte, ma l’avvenimento della conoscenza in tanti e tanti studenti e studentesse. Come si caratterizza la conoscenza? Come i giovani ne parlano? La parola chiave è quella che usava già don Lorenzo Milani nel 1968, è il termine interesse. Qui sta il punto di novità di quest’anno, che interessi ciò che si fa in classe, che uno studente ne trovi il nesso con la vita, che studiando gli si apra una finestra sulla realtà: questo è ciò che si deve approfondire, perché ciò che rimane in noi è ciò che interessa in quanto lo si sente connesso con i problemi quotidiani, mentre ciò che si percepisce come astratto cade nella dimenticanza quasi subito.
Bisogna riproporre il vecchio e quanto mai attuale “mi interessa”, perché la rivoluzione di Renzi può far storia solo se entra negli interessi dei giovani, solo se arriva al limite delle loro passioni.