“Ma con quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine”. Con questa affermazione Alba de Céspedesp rievoca quel 2 giugno di settant’anni fa in cui i cittadini italiani furono chiamati alle urne per il Referendum che sancì la nascita della nostra Repubblica. La grande intellettuale partigiana usa giustamente il vocabolo “fine” per indicare due grandi “inizi”: l’alba della nuova forma repubblicana in Italia e la prima apparizione delle donne come corpo civile, politico e  soprattutto culturale.



Il suffragio universale fu lo stadio finale di un percorso durato circa due secoli; la prima occasione in cui si comincia a sentire parlare di “diritti delle donne” risale agli inizi della Rivoluzione Francese nel 1789 quando gli Stati Generali presentarono alla prima Assemblea Costituente una dichiarazione formale dei diritti delle donne, all’interno delle cosiddette “Lamentele”. Essa non solo venne respinta, ma di lì a pochi anni le richieste femminili si spensero sotto la ghigliottina di Robespierre e Olympe de Gouges (la prima “femminista” dell’epoca contemporanea) venne giustiziata  nel 1783.



I tempi erano ancora troppo poco maturi e si dovette aspettare la metà dell’Ottocento con la Rivoluzione industriale per poter parlare di diritti delle donne. L’industrializzazione infatti cambiò in modo radicale la struttura sociale e stravolse la vita delle persone: sorsero proprio in questi anni numerosi movimenti, associazioni e sindacati per ottenere cambiamenti, diritti e libertà. Tra i tanti, uno su tutti colpì la società del tempo: le cosiddette suffragette. Spesso strumentalizzate, organizzatesi nel 1869, le suffragette andavano molto oltre una semplice richiesta di allargamento dei diritti al gentil sesso, ma richiedevano una generale emancipazione femminile. La loro azione si trasformò in una lotta violenta, spesso anche guerriglia, duramente osteggiata dalle autorità inglesi, ma che fu decisiva per l’ottenimento del voto politico nel 1928, come traguardo di numerose vittorie politiche. Le suffragette furono un esempio per tutto il mondo e usate come simbolo per tutti i movimenti di emancipazione femminile successivi.



In Italia il percorso per il suffragio universale fu decisamente più lungo sia per un’industrializzazione lenta e tardiva sia per uno Stato ancora troppo giovane. Per tutto il corso della seconda metà dell’Ottocento in tutta la penisola si registra un analfabetismo dominante e una partecipazione politica praticamente nulla, causata anche dal non expedit imposto da Pio IX. Ciononostante il dibattito sull’allargamento del corpo elettorale rimase un punto decisivo con la sempre maggiore distanza tra il mondo parlamentare e il paese reale e portò alla legge elettorale del 1913 per l’estensione del voto. Questa legge è comunemente ricordata come quella che istituì in Italia il suffragio universale, ma è opportuno fare alcune puntualizzazioni; la più evidente è che il suffragio definito “universale” era una prerogativa maschile: le donne continuavano a essere escluse dalla società civile, cosa che però non scandalizzava l’opinione pubblica del tempo.

Il concetto di cittadinanza era quindi ancora molto ristretto e il diritto di voto era ancora considerato l’esercizio di una capacità e non un diritto dell’individuo. La donna quindi continuava a trovarsi esclusa dalla cittadinanza e ad avere un ruolo marginale nella società, relegato alla dimensione domestica.

La conquista dell’uguaglianza giuridica e della parità dei diritti fu il frutto dei trent’anni successivi alla legge elettorale; anni intensi, carichi di grandi accadimenti storici che videro le donne coinvolte come mai prima nella vita del Paese. Innanzitutto la Prima Guerra Mondiale che con la sua “mobilitazione totale” (come verrà definita da Carl Schmitt) mutò profondamente la realtà quotidiana della donna italiana: si affacciarono nuove necessità e le italiane furono chiamate a sostituire gli uomini mandati al fronte. Diventarono quindi le protagoniste del cosiddetto “fronte interno”, necessario per il sostentamento economico e militare della Grande Guerra.

Un altro momento decisivo è sicuramente il ventennio fascista, che impose alla donna italiana una nuova dimensione subordinata agli interessi dello Stato, esclusa dal mondo del lavoro, relegata per legge fra le mura domestiche. Ma la donna fascista doveva anche contribuire alla grandezza dello Stato; per questo motivo veniva sollecitata ad aderire ai Fasci femminili e a iniziative di propaganda, beneficenza e assistenza, con il preciso compito di partecipare al progresso della vita civile. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale le donne furono chiamate ancora una volta a impegnarsi massicciamente fuori casa e a sostenere col loro lavoro le famiglie e la Patria.

Ma fu con la Resistenza partigiana che le donne italiane si appropriarono di una nuova identità: scardinando i tradizionali ruoli, numerosissime combatterono sul campo al fianco degli uomini, condividendo ideali e pericoli. Memorabili le tante testimonianze fotografiche disponibili negli archivi degli istituti di resistenza e nei fondi privati. Le donne italiane iniziarono così una vera e propria rivoluzione sociale che porterà non solo al traguardo del voto ma alla rivendicazione di nuovi diritti e spazi nella vita sociale e politica del Paese. 

Sebbene il 2 giugno 1946 sia riconosciuto da tutti come la prima votazione a cui parteciparono le donne, in realtà già nelle elezioni amministrative della primavera 1946 vennero chiamate a votare in quasi tutti i comuni d’Italia. Il decreto che stabilì l’estensione del diritto di voto alle donne risale al 1° febbraio 1945 su proposta di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti.  

A questo proposito è importante riflettere su due aspetti che aiutano anche a guardare alla situazione sociale e politica odierna.

In primis il fatto che la proposta di legge fu portata avanti dai rappresentati di due realtà politiche e culturali opposte (Democrazia Cristiana e Partito Comunista) mostra come l’estensione del voto non era una pretesa ideologica di un’area politica particolare oppure un compromesso per “accontentare” uno specifico gruppo di persone, ma il riconoscimento di un dato oggettivo: le donne fanno parte della cittadinanza. 

In secondo luogo è da sottolineare che il Referendum per Monarchia/Repubblica vide un’affluenza del 90 per cento con 25 milioni votanti su 28 milioni elettori; nel testo di riferimento Anna Banti ricorda quel momento nella cabina di votazione come “importante per me”. I dati e la testimonianza aiutano a comprendere come la partecipazione attiva alla politica e il bene per il futuro del proprio Paese era sentito e percepito come qualcosa di positivo per sé, una responsabilità e un guadagno alla propria esistenza prima ancora del “giusto o sbagliato” e addirittura prima ancora della scelta Monarchia o Repubblica.

La realtà stessa del suffragio universale e la vicenda storica dell’impegno delle donne che ha portato al suo conseguimento sono preziose perché ci restituiscono un pezzo di storia spesso dimenticato, oppure banalmente strumentalizzato, che può consentire di ridurre la distanza tra il mondo parlamentare e il paese reale (esattamente come a fine ‘800) che sta portando a una drammatica caduta dell’affluenza nelle elezioni degli ultimi anni.

Distanza che può essere ridotta prima di tutto dalla riscoperta da parte della cittadinanza del guadagno personale e del vanto nel possedere un diritto come quello di votare per il destino del proprio paese, di cui le donne della prima repubblica ci offrono una testimonianza efficace.

Andrea Pezzini