Prime testimonianze su questo dipinto di Giorgio de Chirico si hanno a partire dal dicembre 1929, quando il quadro appare sulla rivista “Selection”, in un numero in cui l’artista ne è il vero protagonista. Nello stesso tempo la tela viene messa all’asta presso la Galleria Bardi di Milano, con l’intera collezione del fiorentino Attilio Vallecchi, che verosimilmente potrebbe essere stato anche il committente nel 1922. Dal 2010, dopo un percorso abbastanza caotico, il quadro giunge al Museo del Novecento di Milano.



Il tema che de Chirico prende in considerazione è stato oggetto di studio molte volte durante la sua carriera artistica. In questa versione, il nostro pittore sembra allontanarsi non di poco dall’influenza di Bocklin, avvicinandosi a nuovi modelli e pensieri, primo fra tutti Nietzsche con l’idea dell’eterno ritorno, dove passato e futuro si amalgamano, fino al totale annullamento.



In una piazza, delimitata a destra da un edificio porticato e aperta sulla sinistra su un paesaggio lontano, emerge, in primo piano, un tenero abbraccio tra il figlio, un manichino senza volto caratterizzato da colori sgargianti, e il padre, rappresentato in maniera rigida come una statua di gesso. Certamente nella pittura di de Chirico la figura del manichino ricorre non poche volte, nella maggior parte dei casi nei quadri del periodo metafisico. Il manichino, sebbene possa sembrare privo di significato, assume una valenza molto importante: è metafora dell’artista creatore, un suo doppio; sta proprio qui la tendenza dechirichiana nel proiettarsi in ogni sua opera d’arte. La Parabola del figliol prodigo ha permesso a de Chirico di tradurre in immagini i passaggi fondamentali della propria vita privata e artistica: se “il ritorno in patria” simboleggia il ritorno in Italia nel 1915 dopo gli anni trascorsi a Parigi, “il ritorno del figliol prodigo” del 1922 non sta tanto a simboleggiare (con la presenza del manichino) un ritorno alla metafisica, quanto la ritrovata pace con il classicismo, con la storia artistica italiana e con l’ambiente museale.



Sotto un punto di vista prospettico, la tela di de Chirico si ispira non a caso ai canoni quattrocenteschi. A ragion di ciò notiamo una bassa linea di orizzonte a mettere in risalto la posizione centrale dei due soggetti. L’omaggio all’architettura fiorentina si nota, inoltre, nell’edificio sulla destra e nelle caratteristiche, chiaramente toscane, del paese di sottofondo. Si può ipotizzare inoltre che il cielo luminoso, ma tormentato da nuvole, possa essere un omaggio a Mantegna e a Bellini. Infine, passando ad un piano strettamente tecnico, anche il materiale utilizzato per dipingere (la tempera grassa al posto dell’olio) fa comprendere la perentoria volontà dell’artista di recuperare il passato perduto.

Se per de Chirico il rapporto padre-figlio è da leggere ed interpretare in chiave quasi filosofica, non è così per Umberto Saba, che, nel 1978, dedica buona parte del proprio Canzoniere al rapporto col padre. Saba descrive i propri sentimenti con rabbia, dolore e rimpianto. È lampante l’accusa e la critica mossa nei confronti di un padre assente, così spietato e meschino da avere abbandonato una donna incinta e da vivere per tanti anni come se niente fosse successo.

Da questi due paragoni notiamo quanto, spesso, il significato delle parole possa essere altamente soggettivo e fuorviante, tanto da portarci in due ambiti così lontani e differenti tra loro.

Sofia Marzorati