Nel brano Umberto Eco porta il lettore a soffermarsi su quanto il mondo di oggi sia pervaso da un’ingente mole di “poteri immateriali”: uno fra questi è la letteratura: un bene non solo “immateriale”, ma apparentemente privo di qualsiasi funzione pratica o immediata, quasi dotata di uno stato autonomo, fine a se stessa e fruita senza particolari obblighi. Se le cose stanno così, “a cosa serve la letteratura?” si chiede Eco.



Il primo aspetto che sottolinea il critico è quello della letteratura come esercizio della lingua, quella lingua che è un fondamentale patrimonio collettivo (cosa di cui ci si dimentica spesso). Un’annotazione del testo in particolare arriva quasi come un piccolo pugno nello stomaco: a quanti infatti si lamentano per l’appiattimento verso il quale la lingua italiana sembra precipitarsi negli ultimi decenni, soprattutto nella giungla di parole e discorsi dei mass media e dei social networks, Eco risponde che proprio questo percorso non solo era ammesso ma addirittura invocato e perseguito da autori come Manzoni in primis, seguito quasi un secolo dopo da Svevo e Moravia. Sappiamo infatti con che pazienza e con quale cura (quasi maniacale) l’autore dei Promessi sposi abbia manipolato la lingua del suo romanzo, lavorando con l’attenzione di un cesellatore su ortografia, vocaboli, sintassi, modi di dire ed espressioni comuni, scegliendo “quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso” (dalla Prefazione del Fermo e Lucia). 



Al di là della scelta infine operata da Manzoni verso una lingua colta fiorentina (soluzione che si pone come crocevia fondamentale per la costruzione della lingua che parliamo oggi), interessa qui evidenziare come ciò che oggi variamente si lamenta come un deterioramento della lingua, e cioè la sua uniformazione, era da Manzoni vista come un valore assolutamente positivo. Questo rivela nell’osservatore e nel commentatore moderno, assunto come ideale interlocutore da Eco, una parziale mancanza di prospettiva storica e linguistica, per cui ci si ritrova intrappolati nel sempre ricorrente cliché (si veda già l’approccio di Bembo alla lingua di Petrarca e Boccaccio) che considera ciò che è passato, un po’ antico, e quindi ormai stabilizzato, come migliore. 



Tuttavia, vale la pena porsi una domanda: se per Manzoni un tale percorso è fondamentale per motivi politici — nel senso più alto del termine, nell’ottica di una possibile unità linguistica nazionale — e ideali — la lingua “piana” come strumento di comunicazione di verità e contenuti (interessante l’aggettivo moralmente riferito ai “favellatori”) —, è ancora questa la tensione che spinge oggi la lingua verso un livello comune, verso un italiano medio? 

Pur volendo valorizzare le novità e i cambiamenti che sempre la storia presenta al nostro sguardo — compresi quelli della lingua — sorge il dubbio che il motore segreto dei sommovimenti linguistici in atto sia più che altro un disimpegno dal linguaggio, riflesso di un più generale disimpegno dalla realtà, e una mancanza di contenuti reali da trasmettersi l’un l’altro. È un cammino verso la comunicabilità, o un declino inarrestabile verso l’incomunicabilità (tralasciando la mera comunicazione formale)? La domanda rimane aperta.

Sicuramente, nel gioco di oscillazione tra l’una e l’altra strada (forse non così lontane come sembra) un ruolo importante lo può e lo deve giocare la letteratura. Giustamente Eco la definisce un “potere immateriale”, dal momento che la fruizione di ciò che chiamiamo letteratura (romanzi, poesie…) non presenta un risvolto concreto, immediatamente percepibile, ma contribuisce alla formazione della nostra coscienza e della nostra mente, anche dal punto di vista linguistico. Per questo, se il rischio di una lingua privata della sua valenza comunicativa è sempre presente, la valorizzazione della letteratura può costituire un valido antidoto ad esso, trasmettendo la bellezza di un linguaggio che non si accontenta di galleggiare nelle paludi della mera comunicazione di servizio, ma accetta il combattimento con la realtà, la abbraccia, la valorizza e tenta di penetrarne a fondo il significato restituendolo, per come possibile, a chi legge. 

Per far sì che questo avvenga, perché la letteratura porti i suoi frutti, è necessario accostarsi ad essa con il dovuto rispetto, ammonisce Eco: essa ci offre una pluralità di piani, specchio della complessità del linguaggio e della vita stessa, ma un corretto rapporto tra lettore e letteratura prevede che in quest’ultima egli scopra delle risonanze, delle consonanze con quanto il suo animo vive, sente, pensa, non che il lettore riversi sé stesso acriticamente nel testo, trovando solamente ciò che vi vuol trovare. Si tratta di due tipi di rapporto apparentemente simili, forse poco distanti l’uno dall’altro, ma sostanzialmente agli antipodi. È una questione morale, cioè di attaccamento alla verità: la verità del testo, la sua realtà, e quindi la verità dell’esistenza, che nel testo è come baluginante, presente in controluce.

Le riflessioni di Eco si collocano al termine di un secolo, il Novecento, che come nessun altro ha percepito in modo dilaniante il problema della lingua. Le grandi tragedie delle guerre mondiali e degli stermini di massa hanno messo in crisi la possibilità narrativa in sé stessa, la possibilità di una rappresentazione adeguata del reale che tanto è parso esorbitare le umane misure; nasce in parte da qui, da questa crisi di valori e certezze il ricercato “assottigliamento” (se così si può definire) di molta lirica da Ungaretti in poi, o l’ossessivo stravolgimento dei metri poetici tradizionali tipico di Montale. Quasimodo ne fa addirittura un manifesto programmatico in Alle fronde dei salici.  

In secondo luogo, a partire dagli anni 60, l’avvento della tecnologia ha modellato una nuova forma sociale della lingua, come notava con il suo solito acume premonitore Pasolini, per cui il principio di modificazione della lingua oggi — come accennato prima — sta “in una cultura tecnica anziché umanistica”: conseguenza di questo, per Pasolini, sarà il prevalere del “fine comunicativo” (inteso come meramente informativo) su quello “espressivo”, cioè — potremmo dire — significante l’intera realtà umana. È necessario un paziente lavoro educativo, che sicuramente può e deve avvalersi di uno strumento fondamentale come la letteratura (e pensiamo alla ricchezza della nostra letteratura italiana), senza tuttavia porla sotto una campana di vetro: sarebbe questo un modo per allontanare ancora di più i ragazzi dal comprendere il suo valore. 

È importante invece far scoprire loro come in ogni testo ci sia qualcuno pronto a parlargli, a intercettare i loro pensieri più nascosti e il loro desiderio più inconfessabile, che è quello di non accontentarsi di nulla. Solo così sarà possibile valorizzare nuovamente anche il linguaggio, scoprendolo come una delle espressioni principali dell’autocoscienza umana e come chiave per indagare il mistero dell’esistenza.