Per sapere che il padre sia il grande nemico non dovevamo aspettare i brani d’autore proposti ai maturandi alla prima prova dell’esame di stato per il saggio breve o l’articolo di giornale di carattere artistico-letterario. Gran parte della letteratura batte su questo tasto. Ma anche la cronaca, il costume, la violenza di oggi e quella dei decenni alle nostre spalle bevono alle acque inquinate del risentimento contro la figura paterna. Credevamo che alcuni accenti di una parte della psicanalisi e della sociologia segnassero un iniziale cambio di rotta.



E invece no, sembrano dire gli esperti del Miur che hanno compilato le tracce per l’esame. Una grande tristezza e una ancor più grande indignazione alla lettura dei tre brani proposti di Saba, Kafka, Tozzi. Tre su tre raffigurano un padre avvertito dal figlio ora come assassino, ora come inflessibile giudice, ora come violento da cui scappare con l’inganno. Si potevano trovare brani di scrittori di uguale peso nella storia letteraria e di non minore statura personale. Cito a caso: Fenoglio, Vittorini, Camus, Joseph Roth, Hemingway…., a meno di non voler tornare (ma ci vorrebbe coraggio!) al vecchio Manzoni, all’ancor più vecchio Foscolo, a Shakespeare, grande assente nell’anno del centenario e poi ancora più giù, a Dante, a Virgilio. Quanti padri carnali e spirituali si ritrovano nelle loro pagine, quanti figli hanno generato sul piano dell’apprendimento della lingua e della cultura della propria nazione (tanto per tornare alla bella pagina di Eco, oggetto dell’analisi di testo), quante figure in cui rivedere il legame che tiene unite, pur nella dialettica necessaria, le generazioni. Quanti padri di famiglia non hanno fatto sentire il figlio una “totale nullità”, come quello di Kafka. E nella vita, correggendo, approvando, soffrendo. Non nella scrittura, dove così spesso le cose si irrigidiscono.



Si è invece voluto cedere al tema banale della rivolta, del conflitto che in genere gli anni stemperano man mano che si trova la propria strada, ad una specie di determinismo statico che congela ogni evoluzione nel ricordo ossessivo delle ingiustizie subite.

Il padre non è questo, anche se può essere fissato così nella memoria del figlio diventato grande. Ma allora si entra in un campo minato, quello del pessimismo, della difficoltà di relazione con i pari. Cose che si vedono, certamente, e non solo in privato, ma anche tra gruppi di amici, tra opinioni incapaci di rispettarsi nella loro diversità. Ma lasceremmo ad altri l’indagine sulle patologie personali e sociali; ci basta vederle e, seppure con strumenti non affinati, esercitarci un po’ a leggerle.



Il padre non è questo, e neppure il figlio è questo. Sembra alludere a ciò l’opera di de Chirico, Il figliol prodigo, proposta come unica immagine a completare la rassegna del ministero e sui cui molteplici significati, personali ed estetici, è meglio rivolgersi agli storici dell’arte. In ogni caso il titolo ripreso dalla parabola evangelica parla di un figlio che rielabora la rivolta e torna, accolto nella sua sconfitta, che dunque cambia di segno e apre alla novità. Credo che questa sia una lettura modesta e per così dire laica. Il livello minimo di comprensione.

Che dire in sintesi? Che la scelta fatta è retrograda, rimanda a una problematica presente ma vecchia, data l’inconsistenza odierna del padre nell’educazione dei giovani. Che la scelta fatta è univoca e si limita a un aspetto della relazione e a quello solo; come tale non rispetta la realtà che, come si sa, è complessa. Che la scelta fatta è plumbea, e in questo sì si adatta a tempi grigi, e non solo per i giovani, che spesso ne sono in gran parte inconsapevoli. Ma l’arte non può anche indicare, per i giovani e non, una lama di luce?