Posso capire la liturgia che si celebra ogni anno sugli esami finali. Posso anche capire che li si continui a chiamare esami di “maturità”, sebbene già Berlinguer, alla fine del secolo scorso, li nominò semplicemente esami “di Stato”, forse accorgendosi della pretesa eccessiva.
Posso capire pure che si sostenga ancora, con empatica gravità, che questi esami costituirebbero il giro boa per i giovani chiamati ad individuare il loro futuro percorso di vita. Anzi, forse è proprio meglio crederci, in un tempo in cui le fasi cruciali di passaggio della vita e dei transiti dell’esistenza non sono più accompagnati da quei rituali sociali che avevano la funzione di sostenere la persona negli indispensabili momenti di confronto con se stessa e con le sue risorse. Ancora di più, è meglio crederci in un tempo in cui i giri di boa per individuare scelte e riconversioni professionali saranno molto più numerosi.
Posso continuare a capire che ogni anno si rinnovino le teorie complottiste di improbabili incursioni di famigerati hacker nel cervellone elettronico del ministero per recuperare i contenuti delle prove, anche se lo stesso ministero non hai mai avuto un suo vero e proprio cervello elettronico. Così come ogni anno giornalisti, genitori e studenti interpellano presunti esperti, per domare l’ansia e lo stress che la paura degli esami susciterebbero nei candidati, sebbene i loro risultati abbiano da decenni percentuali di successo superiori a quelle delle elezioni che si celebravano in Bulgaria, prima della caduta del Muro di Berlino.
Infine, posso anche capire l’esigenza collettiva di una ricorrente celebrazione liturgica, quasi a volervi ritrovare il tratto identitario di un Paese sempre più incline al conformismo, più per pigrizia che per convinzione.  
Ciononostante, non riesco ancora a comprendere l’assenza dal dibattito pubblico di almeno tre nuclei di problemi sostanziali.
Il primo: l’Italia è l’unico paese dell’occidente in cui le prove degli esami di stato sono ancora scelte dal ministro pro tempore. Introdotta da Giovanni Gentile, con la sua riforma del 1923, questa previsione fu consacrata dal Fascismo, per confermare un’impostazione amministrativa centralistica e per affermare la dipendenza ideologica della scuola dal potere politico, in tutti i suoi aspetti, anche per quelli più squisitamente tecnico-culturali. È evidente come sembri paradossale che la Repubblica continui a mantenere questo impianto originario, pur avendone cambiato nel tempo le forme. Compreso quello che posso rivendicare personalmente, tutti i tentativi di affidare la scelta delle prove d’esame ad organi tecnico-culturali autonomi, magari espressi dalle autonomie delle scuole, sono sempre falliti. Mi pare che sarebbe interessante capirne il motivo. 



Il secondo: pur di guadagnarne qualche risonanza mediatica e politica a livello nazionale, ogni anno la tentazione del ministro di turno è di scegliere prove d’esame culturalmente politically correct. Così è andata anche quest’anno, con l’omaggio ad Eco, la (sbagliata) citazione di Sgarbi sul tema del paesaggio, il retorico titolo ad affetto (“E’ il Pil che misura tutto?”), il richiamo agli astronauti Guidoni e Samantha Cristoforetti, la ricorrenza prevedibile dei 70 anni del voto alle donne. Ma siamo sicuri che scelte di questo genere non aiutino più la spettacolarizzazione dell’evento che la libertà, la cultura e la responsabilità dei docenti e delle scuole? Non sarebbe meglio che il ministro di turno eliminasse ogni retropensiero di scelte politicamente orientate?
Il terzo: da anni si sostiene la necessità di insegnare e di apprendere per competenze. Si è finalmente scoperta l’importanza strategica nella formazione dei giovani, di estese esperienze di lavoro, sia esso industriale o sociale, rilette e interpretate attraverso precise conoscenze critiche. Solo da questo processo, può nascere l’innovazione, l’attitudine all’imprenditorialità personale, la ricerca. Nonostante queste nuove consapevolezze, manteniamo la contraddizione di prove di esami con cui si valutano solo conoscenze, con votazioni molto difformi a seconda dei territori e delle scuole e che, proprio per questo, non sono ritenute attendibili per l’accesso all’università o per l’ingresso nel mondo del lavoro.
Siamo davvero sicuri che valga la pena di continuare così? Nemmeno un dubbio?

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