E’ stato presentato a Roma nei giorni scorsi a cura dell’Anvur il Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2016. L’analisi esplicita e mette in evidenza i punti di forza e di criticità del sistema formativo più alto del nostro Paese. Perché un Paese possa definirsi competitivo e contribuire realmente alla crescita non soltanto culturale ma anche economica, deve essere avanguardia ed esempio sul grado di formazione del suo capitale umano.
E’ appena il caso di ricordare che i laureati che conseguono il titolo e che escono dal sistema rappresentano una quota al di sotto della quota dei Paesi europei. Nel nostro Paese si spende sempre meno per la ricerca e formazione, e i governi fanno a gara per esprimere giudizi positivi quasi filantropici ma nulla fanno in concreto per incentivare e valorizzare i docenti; di più il corpo docente si assottiglia sempre più, è fra i più vecchi d’Europa e i nuovi ricercatori, ormai a tempo determinato, hanno scarse prospettive di carriera e pochi mezzi per portare avanti le loro scoperte.
Emerge un’inesorabile e continua diminuzione del corpo docente, nonostante i riconoscimenti anche internazionali ottenuti dai nostri ricercatori: l’indagine Anvur conferma che i nostri ricercatori sono fra i migliori al mondo e che nonostante l’elevato e sfavorevole rapporto numerico studenti/docenti e le scarse risorse impiegate per studente, essi praticano un’eccellente didattica. Eppure la perdurante incertezza e precarietà accompagnate da mancanza di prospettive di carriera accademica induce, in molti casi, all’abbandono per un trasferimento verso altri paesi. Anche al fine di evitare ciò, le università sono impegnate seriamente nei processi connessi alla valutazione della qualità della ricerca (VQR), fino al punto di correlare sempre più la produttività agli incentivi economici e alle quote distribuite agli atenei come FFO.
Vista la continua riduzione dei finanziamenti possiamo affermare che l’università “non ha sempre trovato un adeguato sostegno nelle politiche pubbliche”. A ciò si accompagna una sempre più scarsa erogazione di fondi per il diritto allo studio anche a livello regionale, ingenerando una disparità di trattamento degli studenti con enormi discriminazioni tra regioni di una stessa nazione nettamente in contrasto con i principi della Costituzione del nostro Paese. Un largo divario tra atenei delle diverse macro-regioni del Paese dimostra l’assenza di politiche incentivanti la convergenza qualitativa della ricerca e della didattica. Una maggiore attenzione e distribuzione di risorse al sistema ridurrebbe anche il divario tra atenei e incoraggerebbe inevitabilmente una convergenza di qualità della ricerca e didattica.
A partire dal 2010, anno della riforma Gelmini, si sono incentivati metodi e strumenti di valutazione e meritocratici come qualità della produzione scientifica dei ricercatori e questo percorso non potrà che condurre ad un miglioramento continuo della nostra formazione certo non automatico, ma è una inversione di tendenza importante.
L’introduzione del concetto di costo standard come mezzo di ripartizione dei finanziamenti favorisce un’aumento di attrattività dei corsi erogati. Gli organi di ateneo come i nuclei di OIV i presidi di qualità assumono, sempre più, un ruolo fondamentale perché con la loro azione costruiscono la qualità del sistema eliminando doppioni e sprechi accumulati favore di una maggiore e più razionale efficienza.
Vediamo in maniera sintetica i risultati indagine Anvur.
Il fenomeno degno di nota in controtendenza con il dato degli anni scorsi è che il calo degli immatricolati si è arrestato. Nonostante la crisi, le scarse risorse dedicate al diritto allo studio, le famiglie hanno ripreso a mandare i figli all’università, le immatricolazioni aumentano dell’1,6% (del 2,4% tra i neodiplomati con età tra pari o inferiore a 20 anni).
La distribuzione degli iscritti al primo anno non è uniforme sul territorio. Nell’anno 2015/2016 il numero degli immatricolati per area di residenza è cresciuto al nord in misura significativa (3,2%), si è leggermente ridotto al centro (-0,1) ed è lievemente cresciuto nel mezzogiorno (0,4%). Elemento altrettanto degno di nota è la progressiva contrazione degli iscritti nelle fasce più elevate: mentre in precedenza gli immatricolati con età superiore ai 25 anni rappresentavano ben il 15%, ora essi sono soltanto il 4%. Le matricole dell’a.a. 2015/2016 sono in prevalenza donne (55%), vivono in gran parte al nord. Molti provengono dai licei scientifici. Pochi provengono dagli istituti tecnici, il 9% degli iscritti sono figli di immigrati. Sulla mobilità degli immatricolati sono aumentati gli studenti che si vanno a iscrivere fuori regione (22%, erano il 18%). Dal mezzogiorno preferibilmente al centro nord (+24%). Gli studenti degli atenei meridionali sono diminuiti del 17%. Quelli del centro sono calati del 5% e nel nord-est dell’1%. Le università del nord ovest aumentano gli iscritti del (+4%), perché meglio collegate con un ricco tessuto produttivo (il Piemonte registra un incremento del 26% di iscritti provenienti da altre regioni).
Sale dal 34,9% al 44,5% la percentuale di laureati “regolari”. Resta alto, al 14%, il tasso di abbandono tra primo e il secondo anno nei corsi triennali di primo livello, si confermano tassi di abbandono decisamente più bassi nei corsi a ciclo unico (farmacia e medicina, dove la percentuale è del 6-7%).
Nel nostro Paese il 42% abbandona l’università, mentre nel resto d’Europa la media è 31% e 30% la media Ocse. Gli studenti provenienti dagli istituti tecnici professionali sono quelli che più facilmente abbandonano (tra il 44% e il 48%).
In media gli atenei italiani sfornano 300mila laureati l’anno, di cui circa il 59% sono donne, prevalentemente provenienti da un liceo scientifico. Un numero che, rapportato alla popolazione della classe d’età 23-34 anni, corrisponde a un basso tasso di laureati, 24% contro il 37% della media Ue e il 41% dell’Ocse; d’altronde il nostro Paese presenta un tasso di accesso all’istruzione terziaria del 42%, mentre la media Ue è del 63% e quella Ocse del 67%.
Ma, a differenza degli altri Paesi, da noi mancano all’appello soprattutto i giovani adulti già introdotti nel mondo del lavoro. Avere un titolo di laurea dà maggiori opportunità di lavoro: a tre anni dal conseguimento del titolo è occupato il 66% dei laureati triennali, il 70% dei laureati magistrali biennali e il 49% dei laureati a ciclo unico.
Nel periodo 2011-2014 la disoccupazione giovanile in Europa e in zona euro è cresciuta, a differenza di quanto accaduto nei Paesi Ocse e negli Stati Uniti. In Italia il tasso di disoccupazione è passato dall’8% del 2011 al 12,7% nel 2014. Ma ciò che va messo in evidenza è che il nostro Paese risulta essere ultimo in graduatoria per livelli di competenza linguistica, con quote di poco più del 3% della popolazione adulta contro il 12% nella media dei paesi partecipanti e il 23% del Giappone (paese in testa alla graduatoria). In questo contesto l’istruzione universitaria dà un valido contributo: tra il 2007 e il 2014 lo scarto tra il tasso di disoccupazione dei laureati quello dei neodiplomati è passato da 3,6 punti a 12,3 punti a favore dei laureati.
Molto c’è da dire sulle carriere lavorative dei laureati triennali (il 54% proseguono con laurea magistrale), si verificano tassi di occupazione del 66% a tre anni dalla laurea per salire al 70% per i laureati magistrali e 49% per quelli a ciclo unico (farmacia, giurisprudenza, medicina e veterinaria).
Il problema del sistema di formazione nel nostro Paese non è soltanto legato alla scarsità di risorse ma lì comincia, perché se si sostiene il diritto allo studio e la prospettiva di carriera dei ricercatori e studiosi favorendo la mobilità si diventa competitivi ed attrattivi; se non si aumenta la quota investita in formazione e ricerca, la crescita sarà via via sempre più contenuta.