Il Corriere della Sera ha pubblicato una notizia che mi ha colpita anche perché quanto descritto accade nell’emancipato Regno Unito, ad un’insegnante 33enne di una scuola scozzese. Titolo e sottotitolo: “Le sue lezioni sono troppo noiose. E la professoressa perde il lavoro”. “Gillian Scott è stata cancellata dal registro dei docenti per due anni dopo le lamentele di genitori e alunni. Secondo il General Teaching Council non è in grado di insegnare”.



Un fatto che interroga tutti, non solo i sistemi scolastici cosiddetti avanzati. Chi fornisce gli strumenti idonei a motivare alla conoscenza, catturare l’attenzione e mantenerla nell’era della connessione continua ad altro? Disconnessi dalla realtà e da se stessi, tutti gli insegnanti — anche i migliori — rischiano di “bruciarsi” prima del tempo. In un Paese dove si chiudono intere scuole se non si raggiungono gli obiettivi di apprendimento prefissati e le nuove iscrizioni diminuiscono, “radiare” per due anni la giovane docente è sconcertante.



Il sottotitolo motiva la decisione mettendo in evidenza l’altro aspetto che mi induce a riflettere sul caso venuto alla ribalta in un Paese molto attento alla problematica del burnout dei docenti, da decenni. La loro forma di “prevenzione” consiste soprattutto nel confrontarsi periodicamente tra colleghi circa gli insuccessi didattici di apprendimento, la validità del proprio metodo e l’eventuale perdita del self control, tutte azioni che inducono ad utilizzare atteggiamenti, comportamenti e strategie maggiormente proficui. Condividere nella propria scuola le insoddisfazioni, valutarne assieme la reale consistenza, provare ad esperire nuove strategie e metodi senza timore di giudizio sanzionatorio è il primo passo indispensabile per non soccombere alla condizione di fatica psicofisica eccessiva e/o cronica, altrimenti detta stress, pressione da inadeguatezza percepita e dichiarata solo in parte, magari taciuta per vergogna. Proprio in questo snodo occorre chi sappia riconoscere il filo sottile che intercorre tra il ricorrente disagio professionale e il rischio di scivolare nella ben più grave psicopatia conclamata, spesso irreversibile. E’ notorio che chi è sopraffatto ormai seriamente dalla “sindrome” nega di esserlo.



Resta un dubbio mentre rileggo l’articolo. Quel suo non saper gestire la classe deriva da una incompetenza strumentale di sempre o si è manifestata solo di recente e a seguito della separazione dal marito? E’ causa o effetto di quanto accade a scuola? Si tratta infatti di uno dei numerosi life events personali e/o familiari cui tutti siamo sottoposti nel corso della vita lavorativa. Disgiungere le sfere familiari e lavorative sarebbe illusorio.

Interessante quel che si dice alla fine dell’articolo; ossia che l’argomento addotto dal padre-avvocato “potrebbe essere facilmente rovesciato come la prova di un caso lampante di ‘burnout”’, ovvero di logoramento professionale, che la docente non ha saputo/voluto riconoscere”. 

Nota significativa che necessita di verifiche, considerata l’età molto giovane della figlia professoressa da tempo sottoposta a stress lavoro-correlato, fino ad essere incapace di “guardarsi allo specchio” autonomamente. 

Provvedere a cambiare registro comunicativo dopo le prime contestazioni sarebbe stato salutare per tutti. Ma poteva/voleva farlo senza il supporto di un capo d’istituto adeguatamente informato e formato sulla delicata questione? Prosegue il padre nonché suo avvocato difensore: “Ogni sua azione è stata monitorata e ogni cosa che ha fatto è stata giudicata sbagliata — ha detto il signor Macluskey ai giudici —. Quest’esperienza l’ha completamente traumatizzata”.

Ciò che doveva essere giustamente e correttamente “monitorato” era il suo stato di salute e qui sorge il dubbio che la professoressa sia divenuta monotona e ripetitiva perché non era più in grado di gestire il suo malessere che “montava” da tempo e la stava bruciando dentro, inesorabilmente. E’ questo il punto di svolta da appurare. Se fosse stata sempre così com’è descritta, l’avrebbero allontanata o le sarebbe bastato frequentare corsi di aggiornamento sul noto cooperative learning, utilizzato efficacemente anche qui in Italia fin dalla fascia scolastica del ciclo elementare. A maggior ragione questo metodo meno frontale avrebbe sortito maggior autonomia e gratificato maggiormente i suoi ragazzi prima che i genitori puntassero l’indice e il capo d’Istituto il pollice verso. 

Allontanata perché non sa insegnare? Qualche dubbio è lecito e quindi andrebbe chiarito. Se — invece — fosse accaduto un “cambiamento”, qualche “segnale” di disagio andava a maggior ragione colto per tempo dai suoi superiori. L’impressione è che sia stata lasciata sola. Impaurita, molto probabilmente ha messo in atto strategie di difesa sempre più inadeguate e strane.

Riconoscersi incapaci di gestire le classi implica una personalità ben formata, autoriflessiva, mente sana e consapevole del rischio di addentrarsi in una professione ad alto rischio di logoramento psicofisico, al pari se non più di altre più note helping professions. Mantenere inalterata la capacità di guardarsi in azione senza perdere le indispensabili capacità di autocritica e giudizio è attività introspettiva di non poco conto, da coltivare nel corso della vita. Specie se si scelgono professioni logoranti.

Per di più emergono gli attacchi frontali di genitori, come avviene pressoché ovunque, ai quali la professoressa — provata dalla sua condizione — non ha retto, persistendo indifesa e convinta del suo modus operandi nella relazione con la scolaresca. Avrebbe potuto evitarle tanta sofferenza e umiliazione una seria formazione in itinere su stress lavoro-correlato unitamente a controlli sullo stato di salute periodici da veri esperti del lavoro, come già avviene in Francia da anni?  Non solo strumenti alternativi alla lezione frontale, considerata ormai desueta, ma controllo della salute e la tenuta psicofisica anche dopo pochi anni d’insegnamento.