Come è largamente noto la qualità di una scuola dipende strettamente dalla professionalità e sensibilità educativa dei docenti e cioè dal loro essere testimoni credibili di buona cultura, di solidi valori e di capacità di stare con i giovani. Questa semplice constatazione — oggi spesso oscurata da una prassi fortemente dipendente da una sorta di ideologia della procedura, ma ben presente tra le famiglie quando cercano la scuola migliore per i figli — ha finalmente trovato un riconoscimento legislativo nella legge detta della Buona Scuola (n. 107/2015) che ha previsto che siano annualmente individuati e premiati i docenti migliori.
A questi spetterà un significativo compenso economico pari a circa una mensilità. A tal fine sono stati stanziati 200 milioni. Il compito di selezionare i “più bravi” è stato affidato al dirigente scolastico che dovrà agire con “motivata valutazione”, sulla base di criteri definiti da un apposito comitato di valutazione (formato da docenti eletti dai colleghi, rappresentanti dei genitori e degli studenti negli istituti secondari nonché da un esperto esterno nominato dall’Ufficio scolastico regionale). Il comitato, a sua volta, è tenuto ad attenersi a quanto già indicato, solo a larghe maglie, dalla legge: qualità dell’insegnamento (ivi inclusi i risultati ottenuti dagli allievi); potenziamento delle competenze e apporto all’innovazione didattica; compiti svolti in ambito organizzativo, didattico e della formazione del personale.
L’obiettivo è chiaro e in apparenza abbastanza lineare. Il suo perseguimento risulta invece quanto mai complesso, se non proprio tormentato. Sembra facile dire “scegliamo i più bravi”, ma come farlo senza incorrere in semplificazioni, suscitare invidie, innescare proteste e addirittura ricorsi è impresa non scontata. Nella Buona Scuola l’ultima parola viene lasciata alla responsabilità del dirigente, una responsabilità — va sottolineato — non solo giuridica e amministrativa, ma anche dal notevole significato simbolico.
Migliaia di dirigenti scolastici si confrontano da mesi su varie piattaforme online per scambiare opinioni, proposte, suggerimenti, per condividere pratiche virtuose. Premiare i docenti più attivi e disponibili oppure anche scovare quei docenti più discreti che tuttavia sono molto apprezzati tra gli studenti, oppure valorizzare quanti primeggiano per prestigio culturale? Come, poi, tutelarsi rispetto a chi, come qualche sindacato ha lasciato trasparire e com’è inoltre realistico prevedere, potrebbe contestare le scelte e intraprendere la via vertenziale?
Se si vuole guardare alla realtà senza veli occorre riconoscere che, più o meno, tutti quanti — dal dirigente al personale amministrativo alle famiglie, compresi gli studenti — sanno senza bisogno di grandi istruttorie quali sono i docenti più bravi. Il problema è come stabilirlo e come dimostrarlo “obiettivamente”. Non mancano in letteratura interessanti e convincenti dissertazioni e neppure esperienze importanti realizzate in contesti internazionali, ma passare dalla teoria alla pratica è tutta un’altra cosa.
Se si scorrono i social sui quali dibattono i capi istituto emerge un certo travaglio su come procedere, ma anche si possono trovare alcune significative indicazioni sulle possibili vie per garantire l'”obiettività”. Le principali — per quanto ho potuto appurare — sono tre.
1. La prima è quella che privilegia l’autovalutazione dell’insegnante che intende concorrere alla premialità: a tal fine egli enuclea e motiva i propri meriti e i risultati raggiunti. Il dirigente si riserva di verificare la veridicità di quanto dichiarato e di comparare — sulla base delle indicazioni del comitato di valutazione — i diversi profili che gli sono sottoposti. Si tratta di una pratica alquanto autoreferenziale, poco invasiva, gradita soprattutto a quanti diffidano, anche su altri piani, delle prassi valutative esterne.
2. Una seconda linea di tendenza è guidata da un criterio quantitativo, a punteggio o, nei casi meno rigidi, affidato alle cosiddette “rubriche”. In questo caso le indicazioni normative nazionali vengono tradotte dal comitato di valutazione in una varietà notevole di situazioni per ciascuna delle quali viene fissato un punteggio (più o meno in linea con quanto accade per valutare i titoli nei concorsi pubblici). Il compito del dirigente risulta notevolmente semplificato: non gli resta che fare la somma dei punti raccolti da ciascun insegnante e stilare un vera e propria graduatoria. Una prassi che garantisce al massimo il dirigente, anche se è lecito dubitare che i punteggi o le “rubriche” siano in grado di interpretare la complessità del lavoro e della professionalità dell’insegnante.
3. Minoritaria, ma non per questo secondaria per importanza, risulta, infine, la proposta di quanti si affidano alla reputazione di cui godono gli insegnanti. In questo caso la valutazione viene scandita in due momenti: una valutazione reciproca tra pari (e cioè tra gli insegnanti della stessa scuola) e una valutazione esternalizzata (ad esempio mediante questionari) nella quale coinvolgere il personale non docente, i genitori e, nelle scuole secondarie, anche gli studenti.
Questa soluzione — consonante con altre tendenze valutative socializzate già attive in numerosi istituti come, per esempio, la rendicontazione sociale — ha il merito di non essere referenziale, di non affidarsi a punteggi alquanto anonimi, per quanto si debba ammettere che presenta il rischio di privilegiare aspetti più esteriori (il docente simpatico, generoso nei voti, ecc.) che sostanziali della professionalità. Ma ha l’indubbio vantaggio di portare più facilmente alla luce quei docenti che, come ha descritto autobiograficamente Daniel Pennac nel suo Diario di scuola, sanno trasformare, con la loro passione educativa, l’ultimo della classe in un “alunno avido di conoscenze”.
Non manca chi infine — con una soluzione compromissoria al ribasso — senza troppi interrogativi già sta ipotizzando che per il bene di tutti e la pace universale nel giro di pochi anni tutti i docenti potranno fruire della premialità mediante un’adeguata turnazione. Anche se il ministero ha escluso in modo tassativo che la soluzione “a pioggia” possa essere tollerata, non escluderei che alla fine qualcuno lavori in questa direzione all’insegna di un ben noto principio: perché farsi del male da soli?
Naturalmente queste varie ipotesi di lavoro (esclusa l’ultima, ovviamente) qui presentate in forma necessariamente schematica, si stanno combinando in forme varie ed eclettiche. Nessuna formula, al momento, sembra tuttavia raccogliere un consenso largamente diffuso e lascia i dirigenti a decidere da soli e in una situazione di obiettivo imbarazzo.
Imbarazzo che si sarebbe potuto evitare se il legislatore anziché concepire il primo triennio di attuazione della legge come una sorta di sperimentazione nazionale (in attesa che un comitato nazionale di esperti indichi alcune linee più cogenti) avesse previsto, in modo più prudente e forse anche più costruttivo, un triennio di sperimentazioni mirate in un ristretto gruppo di scuole. Dopo questo periodo sperimentale — com’è avvenuto con le iniziative che hanno preceduto l’entrata a regime del Servizio Nazionale di Valutazione — sarebbe potuta entrare in vigore in tutto il Paese con maggiore organicità la scelta dei migliori.
A tal riguardo vale la pena di accennare all’inopinata interruzione dell’iniziativa sperimentale (contestatissima dai sindacati, ma utilissima), avviata dal ministro Gelmini in collaborazione con Trellle e la Fondazione per la Scuola, nota come “Valorizza”, che ha aperto la strada all’attuale normativa. Se la sperimentazione si fosse prolungata invece di chiudersi frettolosamente, forse molti interrogativi oggi aperti avrebbero avuto qualche soluzione.
In un settore così delicato e così strategico che tocca corde molto sensibili delle persone l’odierno faticoso avvio potrebbe compromettere (speriamo di no) la portata innovativa della valorizzazione degli insegnanti più bravi. Invece la scuola non solo ha bisogno di insegnanti bravi, ma ha anche bisogno di riconoscerli pubblicamente.