Il Classico, o del Liceo — Ma l’arringa difensiva di Eco è capace anche di rigirare il coltello in molte piaghe. Secondo la Difesa, il liceo classico avrebbe infatti bisogno soprattutto di estendere il dominio delle sue proprie discipline, in particolare verso l’arte e la musica. Davvero incredibile questo vuoto nel fior fiore della scuola italiana, dominata dal linguaggio filosofico e filologico, che ora si vorrebbe scientifico, piuttosto che da quello artistico e letterario. E il liceo classico, sembra scontato affermarlo ma è davvero cruciale, dovrebbe riformare ciò che più lo contraddistingue: l’insegnamento delle lingue classiche, il latino su tutte: “I maturandi dei miei tempi uscivano dal classico senza essere capaci, in genere, di leggere Orazio a prima vista, e talora neppure un’epigrafe su un monumento antico, per non dire una enciclica. C’è dunque qualcosa che non va nel modo in cui il latino viene insegnato. Per esempio si fanno esercizi certo indispensabili sui grandi autori della latinità, ma non si prova mai a dialogare in un latino elementare, come facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa”. Con l’avvertenza, ci permettiamo di aggiungere, che non si confonda questa ampiezza di testi con i metodi usa e getta in cui si è ridotto l’insegnamento delle lingue moderne, per le quali l’incremento di “familiarità” è direttamente proporzionale alla turistica stupidaggine dei “contenuti” e alla riduzione della dimensione letteraria, classica per eccellenza.
Tuttavia, al di là di questa o quella revisione, a noi sembra che ogni indirizzo di liceo o di istituto superiore, università compresa, dovrebbe piuttosto rinnovare la categoria stessa di licealità di cui in ogni caso si compone: è questa dimensione culturale ad essere veramente compromessa, essendo una dimensione del sapere comune a tutti gli ordini di scuola superiore, e non invece una dimensione del sapere che coincide tout-court con un certo ordine di istruzione (il liceo, appunto).
La licealità si esprime nella forma di una lezione pensata per un ristretto numero di studenti; in una retorica della conversazione piuttosto che nella relazione di convegno o nell’argomentazione accademica; nell’immediata relazione fra docente e discente; nella possibilità di variare una pluralità di metodi in dialogo fra loro; nel proporre momenti analitici sempre ricomposti in sintesi di senso; nella possibilità di una ricca varietà di stili culturali e di registri espositivi; infine, in una dimensione del sapere verificata anche esistenzialmente dai soggetti coinvolti nel processo conoscitivo, piuttosto che dalla neutralità impersonale di un metodo procedurale identico per ogni sapere e per ogni sapiente.
Saremo allora con Umberto Eco, che propone un “liceo umanistico-scientifico”, ma solo se rifondato su un’epistemologia liceale, nella quale ogni sapere specialistico torni nell’alveo culturale complessivo e integrale da cui si è avviato, e ritorni nella lingua umana (in questo senso umanistica), che sola, per natura e struttura, è capace di restituire l’unità della cultura.
Si tratta di promuovere un costante dialogo fra lingua paterna (latina, matematica, letteraria) e lingua materna (dell’uso). Eco avvertiva con chiarezza la deriva della licealità, ricordando quel che ormai da anni succede “negli Stati Uniti e sta accadendo sempre più nel mondo”, dove “nascono sacche di iperspecializzazione, dove l’esperto di malattie rare non sa più curare un raffreddore e ha dimenticato la visione globale del corpo umano che ci aveva insegnato Vesalio”.
Anche il dottorato universitario dovrebbe poter essere in grado di perseguire una tipologia di studi liceale, ove ricomporre l’orizzonte culturale in cui saper collocare al giusto posto la propria ricerca specialistica. Lo ricordava anche, sul settimanale Internazionale, Rob Brezsny, con il suo oroscopo, l’ultima superstizione moderna (cfr. R. Barthes, Miti d’oggi), insieme all’arte, che ricordi all’uomo la natura non solo storica o biologica, ma cosmologica della propria identità. Anche l’astrologo attingeva ai classici, quelli modernissimi della fantascienza: “Un essere umano deve essere in grado di cambiare un pannolino, pianificare un’invasione, macellare un maiale, guidare una nave, progettare un edificio, scrivere un sonetto, tenere la contabilità, costruire un muro, aggiustare un osso rotto, confortare i moribondi, prendere ordini, dare ordini, collaborare, agire da solo, risolvere equazioni, analizzare un problema nuovo, raccogliere il letame, programmare un computer, cucinare un pasto saporito, battersi con efficienza, morire valorosamente. La specializzazione va bene per gli insetti (R.A. Heinlein, Time Enough for Love).
Il Classico, o dell’Intempestivo — C’è però un modo di trattare l’argomento, intuito e scelto dal professor Eco sin dal principio del suo intervento apologetico, che a nostro avviso vale da solo la premura del volume, ben al di là delle molteplici questioni particolari, più o meno interessanti, messe in questione.
Perché, se il postmoderno tracciato da Eco lungo il corso della sua vita ci parve sempre un postmoderno supponente e irridente, in questo estremo agone dialettico a favore del liceo classico, messo di fronte a un gioco molto più drammatico di quanto si potrebbe supporre (si tratta in fondo solo di decidere se eliminare o meno una forma di scuola), egli viene a proporre un netto cambio di prospettiva e di giudizio.
Forse, ci piace immaginare, Eco intravide, immaginando il destino del Classico, l’inadeguatezza di un ormai tramontato postmoderno gaio. Forse, nella difficile tenzone col Classico, e con i Classici, meglio che altrove Eco rivela il volto tragico del suo sguardo sulla storia e sul senso del tempo, accedendo ad una visione quasi metafisicamente intempestiva (o inattuale). Come uno Scipione che contempla la terra dalla Via lattea, Umberto Eco fa notare che “negli ultimi anni sono state tentate tante riforme degli studi e attivati tanti programmi sperimentali” sui quali, come tutti noi, anch’egli non può che avere “scarse conoscenze”. La ridda dei decreti ministeriali in corso d’anno è ormai una scoscesa Torre di Babele, ugualmente inutile per raggiungere la serenità dell’Olimpo.
Di qui la scelta, almeno per noi vincente: “Pertanto mi atterrò a due modelli ormai solo ideali di liceoclassico e scientifico che sono quelli che ho conosciuto io sul finire degli anni Quaranta. Ma credo che fondamentalmente pregi e difetti siano rimasti gli stessi, altrimenti non sarebbe venuta l’idea di organizzare questo dibattito o dibattimento, per cui chiedo venia se nella costruzione della mia arringa ho lavorato su Idealtypen piuttosto che su realtà in corso“.
Evitata la tentazione di rincorrere l’impazzita “attualità” delle ordinanze o delle Indicazioni nazionali, Umberto Eco guarda finalmente l’oggetto della sua arringa per quel che vorrebbe essere (ossia per quel che è), nella sua solida, reale idea culturale. Il liceo va difeso perché è un’idea fondativa, che sta al fondo, appunto, alle fondamenta, di tutta la nostra tradizione occidentale, almeno da Atene in poi. Semiologo e scrittore di successo come il Nostro, Roland Barthes aveva da tempo percorso questa alternativa postmoderna, cogliendo la tragica lezione diagnostica di Nietzsche, quando nel 1874 aveva affermato che “il contemporaneo è l’intempestivo“. Ma non è forse proprio la virtù del classico quella di essere sempre presente nella sua intempestività, nella sua sempre mancata coincidenza con ogni forma attualizzata di sapere, e per questo sempre vivo? “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo [classico] colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale, ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (G. Agamben).
Nella consapevolezza dell’abissale sproporzione, pure sia concesso anche a noi di offrire un ultimo omaggio a Umberto Eco. Con questa lirica Ezra Pound faceva i conti col “padre poetico” Walt Whitman. Con questa stessa lirica, Pasolini decise di omaggiare lo stesso Pound, sostituendo i nomi come se fosse una sua poesia, e leggendola così mutata al poeta americano ormai anziano durante una miracolosa intervista veneziana. I tre poeti rendono così visibile cosa significhi l’essere contemporanei della Classicità. Noi, umilmente, imitiamo. Stringo un patto con te, Umberto Eco: / Ti ho detestato ormai per troppo tempo. / Vengo a te come un figlio cresciuto / Che ha avuto un padre dalla testa dura; / Ora sono abbastanza grande per fare amicizia. / Fosti tu ad abbattere il nuovo legno, / Ora è tempo d’intagliarlo. / Abbiamo un solo fusto e una sola radice: / Ristabiliamo commercio tra noi (E. Pound, A pact, 1919).
(2 – fine)