Alla fine del primo anno scolastico dell’era della cosiddetta “Buona Scuola”, non è più possibile mistificare il fatto che i suoi due principali obiettivi sono stati mancati, come facilmente preannunciato da quei pochi osservatori che avevano letto le norme, ma che erano stati tacciati di essere solo uccelli del malaugurio.
Non ci sono più dubbi che la “supplentite” sia ancora rimasta sostanzialmente ai livelli dell’anno scolastico precedente, superando le 100mila unità e che la fine del precariato non sia stata ancora realizzata, con più di 70mila insegnanti ancora iscritti, per scelta consapevole, nelle graduatorie a esaurimento (Gae).
Inoltre, solo dopo pubbliche e ripetute richieste anche in sede parlamentare, il ministero dell’Istruzione ha fornito dati che evidenziano la stretta interconnessione tra la “supplentite” ed il precariato. I due si autoalimentano in una spirale viziosa che la Buona Scuola non ha ancora saputo spezzare. Infatti, più di 20mila supplenze dell’anno scolastico appena concluso sono state assegnate ad insegnanti precari, iscritti nelle terze fasce delle graduatorie d’istituto, privi di abilitazione, per garantire il normale svolgimento delle lezioni.
Si tratta di una platea di insegnanti che ha insegnato le materie per le quali nessun insegnante immesso in ruolo con il cosiddetto organico del potenziamento aveva la relativa abilitazione e la necessaria preparazione. Sebbene in parte, essi costituiranno quel contingente necessario a coprire quelle cattedre che rimarranno sicuramente vuote anche dopo la conclusione del concorsone previsto dalla stessa Buona Scuola, nonostante siano state anche riviste le classi di concorso per ampliare le possibilità di insegnamento per ogni insegnante abilitato. E costituiranno quel bacino di insegnanti precari di cui la scuola italiana si avvarrà continuativamente per garantire l’ordinario svolgimento delle lezioni e che determinerà l’insorgere di un nuovo precariato, nonostante le circa 70mila assunzioni fatte con il piano straordinario.
Oltre questi fatti, sul prossimo anno scolastico si scaricheranno gli effetti di altre discutibili previsioni della legge 107/2015, a partire da quella mobilità straordinaria che farà cambiare scuola a decine di migliaia di insegnanti già immessi in ruolo l’anno scorso a cui è stato permesso di restare supplenti ancora un anno dove lo erano l’anno precedente e che stavolta, a settembre, dovranno fare davvero le valigie per spostarsi nelle scuole in cui sono stati assunti.
Se l’estate scorsa si è parlato di deportazione, ci si può già immaginare le proteste che andranno mediaticamente in scena quest’anno, non appena gli Uffici scolastici regionali cominceranno a comporre gli organici del prossimo anno scolastico.
Dai loro ultimi atti negoziali, sembra che tutto questo sia già stato messo in conto sia dal Miur, sia dai suoi vertici politici, che avevano fieramente tenuto lontani i sindacati a difesa del punto più qualificante della riforma ovvero la “chiamata diretta” degli insegnanti da parte del dirigente scolastico, che anche per questo è stato appellato “preside-sceriffo”.



Infatti, sembra evidente che con gli accordi sulla mobilità e sulla chiamata diretta si siano depotenziati gli ambiti territoriali e si sia tradita la stessa chiamata diretta per cui i dirigenti scolastici avrebbero dovuto selezionare i docenti in base agli obiettivi del Piano dell’offerta formativa (Pof). In particolare, con il primo accordo, i nuovi ambiti territoriali sono stati riservati ormai solo agli insegnanti immessi in ruolo per ultimi, determinando una loro nuova segmentazione per anzianità di servizio, una sorta di “nonnismo scolastico” con cui si cerca di ridurre l’immancabile protesta di fine estate. Con il secondo accordo sono state definite le modalità di gestione della chiamata diretta per limitare la discrezionalità del dirigente nella selezione del proprio organico.
Sebbene non siano riusciti ad ottenere la totale disapplicazione degli ambiti, con l’accordo sulla chiamata diretta i sindacati hanno ottenuto l’identificazione a livello nazionale di una serie di indicatori (informatica, lingua straniera e Bes), che i dirigenti scolastici dovranno obbligatoriamente considerare nella definizione del profilo dell’insegnante da selezionare.
Solo dopo la pubblicazione di questo profilo il dirigente scolastico potrà stilare la graduatoria, dopo aver analizzato tutte le istanze pervenute. Se un docente possiede tutti i requisiti nazionali, dovrà essere chiamato necessariamente; se più docenti hanno il medesimo “punteggio” si sceglierà a partire dal punteggio di mobilità; se nessuno li possiede tutti e tre, si sceglierà chi ne possiede due e così via.
In questo modo, il Miur non ha solo limitato l’autonomia scolastica con un appesantimento burocratico dovuto alla necessità di redigere elenchi e gestire candidature, ma ha anche snaturato il senso stesso della selezione da parte del dirigente.
Infatti, nell’ostentato spirito originario della previsione normativa, i dirigenti scolastici avrebbero potuto scegliere la propria “squadra”, per realizzare gli obiettivi formativi inseriti nel Pof cui è anche legata la loro stessa valutazione, secondo l’ultima direttiva emanata dal Miur. Invece, con l’accordo sulla chiamata diretta e con l’individuazione di criteri nazionali, la scelta dei dirigenti è fortemente condizionata dallo scorrimento di una graduatoria ed anche il colloquio, che avrebbe dovuto essere determinante nella selezione del docente a cui affidare l’incarico, viene svilito ad un semplice adempimento, con l’effetto paradossale di determinare una totale deresponsabilizzazione del dirigente scolastico, che alla fine individuerà gli insegnanti sulla base di criteri preordinati a livello centrale.

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