Avete notato quanto poco si parli nella recente legge 107/2015, quella della “Buona Scuola” per intenderci, della scuola per l’infanzia? Forse al Miur sono ancora seduti sugli allori di quelle scuole di Reggio Emilia che ci hanno assurti alle cronache mondiali, tanti ma tanti anni fa. Forse, al di là dell’enfasi linguistica che ha via via variato la denominazione del settore (da asilo, a materna, a “dell’infanzia”, a “per l’infanzia”), non essendo scuola dell’obbligo continua nei fatti ad essere considerata preparatoria alla vera scuola, quella dello scrivere-leggere-far di conto.
Forse la concezione assistenzialistica che ne ha visto il nascere, continua subdolamente a permanere: nelle famiglie, sempre più sole a gestire la crescita dei bambini, senza reti parentali e che si accontentano di luoghi dove “far socializzare” i loro figli, senza andar troppo per il sottile sul come e il perché e che spesso delegano, invece, alle istituzioni un ruolo insostituibile; in alcuni insegnanti che considerate spesso le Cenerentole della scuola italiana, si limitano a svolgere attività di cura, da vice-mamma o, novità frutto del ministro Fornero, da nonna.
E così troviamo scuole il cui progetto è solo mera formalità e che nel vuoto metodologico coltivano unicamente rapporti non autentici con le madri, espressi in finte rassicurazioni (ha mangiato, ha dormito, ha fatto il bravo) e altrettanto artificiali sorrisi all’entrata e all’uscita, partendo dal presupposto che tanto i bambini non sanno esprimersi, o dicono bugie, o sono “monelli”, o che le tensioni sono frutto degli “altri” bambini. Di “altri”, la scuola pubblica e non solo, ne ha moltissimi e non è difficile usarli da capro espiatorio.
Se vogliamo tornare allo specifico dell’ottica di un dirigente scolastico di territori obiettivamente complessi, come le periferie delle città metropolitane, l’ultimo documento ministeriale che ha fornito apporti pedagogici innovativi e di qualità sono stati gli “Orientamenti” del 1991 che hanno introdotto i “campi di esperienza” quale prospettiva più attenta ad una più aggiornata educazione dell’infanzia.
Sarà necessario attendere il 2012 per rintracciare proposte e analisi sociologiche dedicate alla prima infanzia a scuola, nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo”. Nulla di nuovo pedagogicamente se non l’incipit “Cultura, scuola, persona” e il paragrafo “Per un nuovo umanesimo” che inquadra i bisogni di crescita intellettuale dell’infanzia del nuovo millennio in prospettive filosofiche e sociologiche ben scritte e condivisibili da quella che è diventata la società complessa e globale.
Per il resto: non progetti, non finanziamenti ad hoc, niente arredi ed interventi strutturali da parte degli enti locali preposti a ciò, enti che continuano a non aumentare il numero di scuole (soprattutto in certe regioni); scuole che divengono obsolete strutturalmente e che crollano in tutto o in parte sulle teste dei bambini.
Qualche comune illuminato finanzia ed integra, a caro prezzo, con rette non proprio popolari, nidi all’avanguardia o “giocherie” per sanare la mancanza di luoghi di incontro naturali per le famiglie e i loro bambini e in tal caso viene a crearsi una dicotomia imbarazzante nel passaggio da questi luoghi eccelsi e con personale altamente specializzato alle povere scuole statali che non dispongono di tutto ciò e che dovranno gestire la sfiducia e il malcontento che inevitabilmente emergerà nelle sezioni-pollaio di 29 alunni.
Di obbligatorietà della scuola per l’infanzia non se ne parla più e gestire l’ansia delle famiglie nell’accaparramento del posto in una scuola statale è attività ormai consueta. E allora: criteri, liste di attesa, comitati, ricorsi, passa-parola ai cancelli delle scuole, modelli da compilare, scadenze da rispettare… chi ce la fa, è bravo! Chi non ce la fa, o si organizza con scuole montessoriane, steineriane, vegane e vegetariane…se ne ha la possibilità economica, oppure rimane a casa davanti a tv arabe, cinesi, bangla, con madri che non impareranno mai l’italiano (perché tanto lo parla il marito, qui da anni) o dietro qualche bancone di bar o sartoria clandestina.
Ma anche le scuole hanno le loro responsabilità in questo scenario di recessione educativa: alcune con un’ottima progettualità e con docenti preparate e motivate, altre abbandonate a sé stesse. L'”autonomia didattica” può prevedere di tutto: sezioni omogenee, eterogenee, come capita-capita, classi aperte o sigillate, dalle quali i bambini non possono uscire nemmeno per andare in bagno… se non rigorosamente inquadrati come soldatini. Di conseguenza, o forse in dipendenza da ciò, l’organizzazione dell’orario dei docenti è molto differente: insegnanti che lavorano secondo turnazioni mattina-pomeriggio, rigorosamente rispettose dell’eguaglianza sindacale (e non dei bisogni dei bambini), insegnanti che hanno orario “spezzato” nel corso della stessa giornata, insegnanti che lavorano in due nella sezione mentre i bambini dormono, altri che organizzano laboratori a piccoli gruppi. La chiusura o l’apertura metodologico-didattica è spesso determinata da bisogni personali che vengono spacciati per modelli pedagogici.
Certo, l’età media dei docenti italiani si è verticalmente impennata grazie alla Fornero e si sta quindi sperimentando per la prima volta nella storia dell’occidente l’insegnante-nonna che va a completare strani organici: una parte, laureate ed abilitate dopo vent’anni di studio ed altre con l’artrosi, l’ipertensione, problemi all’udito e alle corde vocali e che magari a casa accudiscono a nipoti e genitori anziani e che certamente sono lontane generazionalmente anni luce dalle famiglie dei loro alunni. Infatti spesso queste ultime sono considerate incapaci di educare e la risposta della scuola diviene unicamente il rispristino di forme di autoritarismo che non ha nulla a che vedere con l’educazione morale ed il rispetto della specificità dei bisogni di espressione dell’infanzia.
Ho tracciato uno scenario apocalittico? La cura e l’attenzione alla crescita dei nostri bambini è aspetto troppo importante affinché un solo caso di mala-pedagogia possa essere tollerato e a tal proposito la cronaca ci fornisce storie che non possono essere considerate esagerazioni mediatiche. Un solo bambino al quale le istituzioni non dia contesti e momenti di crescita amorevoli e rispettosi, è un delitto per l’umanità. E’ un futuro adulto che porterà su di sé una cicatrice indelebile.