Il Corriere della Sera ha dedicato l’editoriale di venerdì scorso, firmato da Dario Di Vico, ai primi risultati della selezione degli oltre 60mila nuovi docenti. Secondo l’editorialista, sempre attento alle questioni economico-sociali, i dati sulla selezione severa praticata dalle commissioni di concorso sarebbero una buona notizia. Un personale docente qualificato è la miglior garanzia di qualità per una scuola che possa funzionare come motore di sviluppo ed occupazione. Una selezione più severa e una particolare attenzione non solo alla conoscenza della disciplina, ma soprattutto al saperla mediare didatticamente, sarebbero le novità del concorso. Con un dubbio, che tempera l’ottimismo: se questa politica severa di selezione non sia, in realtà, piuttosto l’ennesima manifestazione di un approccio improvvisato alle questioni da parte della burocrazia ministeriale, che avrebbe prodotto un disallineamento tra il fine politico-ministeriale di collocare stabilmente nuova forza lavoro intellettuale, i comportamenti severi di commissioni d’esame raffazzonate all’ultimo momento e le aspettative dei candidati.
L’analisi dell’editorialista appare, in ogni caso, esageratamente ottimista. La severità della selezione è, per un verso, burocraticamente dovuta e, per l’altro, completamente scentrata. Mi spiego. I posti da assegnare sono esattamente 63.712. I concorrenti sono oltre 200mila. Se i concorrenti superano di quattro volte i posti, occorre fare una prova pre-selettiva che ne tolga di torno una bella fetta. Donde una pre-selezione alzo-zero. Ma anche il successivo momento, quello della selezione vera e propria, non può essere da meno. E’ una necessità amministrativa! Ma è una severità scentrata rispetto all’obbiettivo di scegliere i migliori, quelli capaci di far crescere i ragazzi in sapienza. Perché il meccanismo del concorso non lo consente.
Le prove del concorso sono di due tipi: una prova scritto-grafica, articolata in otto quesiti, inerenti alla trattazione di tematiche disciplinari, culturali e professionali, volti all’accertamento delle conoscenze e delle competenze didattico-metodologiche, in relazione alle discipline oggetto dell’insegnamento. Sei quesiti sono a risposta aperta; due, articolati ciascuno in cinque domande, sono a risposta chiusa, volti a verificare la comprensione di un testo in lingua straniera, prescelta dal candidato tra inglese, francese, tedesco, spagnolo, almeno a livello B del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue. Nel caso delle classi di concorso di lingua straniera, l’intera prova scritta conserva il medesimo schema, ma si svolge in lingua. Questa prova dura due ore e mezza. Quella orale dura 45 minuti, occupati quasi per intero dalla lezione simulata e dalla verifica di lingua straniera.
Ai candidati di oggi, già laureati in 4/5 anni, già abilitati, si presenta da ri-esplorare uno scenario enciclopedico che parte dall’antichità ai nostri giorni: filosofia, psicologia, sociologia, antropologia, pedagogia, storia, letteratura, didattica, valutazione ed autovalutazione, le indicazioni nazionali, ordinamenti, istituzioni, varie linee guida, legislazione scolastica, direttive europee…
Insomma: la prova è tutta schiacciata sulla dimensione cognitiva e mnemonica. E quindi non è in grado di scegliere chi è capace di insegnare. Sceglie chi ha buona memoria. Se le competenze unanimemente riconosciute come competenze-chiave per essere un buon docente sono cinque — possedere la disciplina, essere capace della sua mediazione didattica, sapersi relazionare con i ragazzi, saper costruire comunità educante con i colleghi, avere rapporti con la realtà civile circostante — il concorso accerta solo la prima, qualcosa vagamente della seconda (perché una lezione senza i ragazzi davanti si riduce a un soliloquio!), nulla delle altre!
Quanto alla prima, la laurea e i master non bastano?! In ogni ambito lavorativo, l’assunzione del personale avviene per colloqui diretti e per vaglio di esperienze di lavoro precedenti. E l’assunzione la fa chi porta la responsabilità dei risultati. E, conseguentemente, dà anche la valutazione, valorizza i migliori e licenzia, se necessario, i peggiori.
Invece, nell’attuale meccanismo burocratico, il modello di assunzione è quello dell’esercito napoleonico e prussiano, trasferito nella pubblica amministrazione. Con questo meccanismo i rischi di “selezione avversa”, cioè di scegliere docenti inadeguati, sono altissimi. Una volta assunti, restano per sempre. E se fanno danni, sarà per sempre. E nessuno ne risponde. Eppure la retorica pubblica e la pubblicistica sostengono che la scuola è la prima industria del Paese, che l’economia della conoscenza è ciò che decide del futuro dei giovani e del Paese. In realtà, pare, la scuola resta un pezzo irriformabile della pubblica amministrazione irriformabile.