Spero di non essere accusata di particolarismo se ancora una volta prendo spunto per le mie riflessioni da un fatto personale: in questo caso, il figlio di amici che ha fatto il quarto anno di liceo ad Atene, al quale il preside ha suggerito di fare l’esame di maturità nel liceo italiano, che è di quattro anni, guadagnando così un anno. Incuriosita (confesso che non lo sapevo) ho scoperto che in base ad un decreto del 2010, dall’anno 2010-2011 tutte le scuole secondarie di secondo grado italiane all’estero hanno durata quadriennale. Parliamo di un numero non piccolo: secondo il ministero degli Esteri, “l’attuale rete scolastica all’estero è composta da 183 scuole italiane e 111 sezioni italiane presso scuole straniere (bilingui o a carattere internazionale) e presso scuole europee, per un totale di 294 istituzioni”: di secondarie superiori ne ho contate una quarantina fra statali e paritarie.
Ora, dell’opportunità di anticipare a 18 anni la fine della scuola secondaria, riducendo il percorso scolastico da tredici a dodici anni, si discute da molto tempo, in genere con la motivazione che così l’Italia si allineerebbe ai molti paesi europei in cui i giovani si presentano sul mercato del lavoro un anno prima. La riduzione comporterebbe anche consistenti risparmi, che andrebbero stimati, ma che sarebbero dovuti sostanzialmente alla riduzione del numero di docenti, il che spiega il ricorso della Cgil al Tar de Lazio, accolto ma recentemente annullato dal Consiglio di Stato. Adesso si parla di una sperimentazione che, dopo quelle sporadicamente approvate negli anni scorsi (una dozzina fra statali e paritarie localizzate in tutto il paese) potrebbe partire a settembre. Ma non mi risulta che ci si sia posti il problema di valutare in modo sistematico come ha funzionato questa riduzione, né in Italia né all’estero: eppure si parla di un campione di adeguate dimensioni per una ricerca valutativa che mi permetterei di suggerire agli amici di Invalsi. Tra l’altro queste scuole (ripeto: non ho fatto una disanima accurata) sono costruite secondo la logica per cui non è stato compresso in quattro anni quel che prima si faceva in cinque, ma l’intero quadriennio è stato ripensato, rispondendo alle obiezioni di chi si oppone al “salto della quinta”.
Il primo vantaggio di una riduzione degli anni di scuola, certamente gradito a molte famiglie, è quello di abbreviare i tempi (e i costi) del periodo di studio, grazie ad una ristrutturazione che razionalizzi le molte incongruenze dell’attuale modello, e potrebbe estendersi all’intero percorso, secondo ipotesi diverse (tre moduli di quattro anni, un modulo di sette ed uno di cinque…), contribuendo a risolvere il problema della fragilità della scuola secondaria di primo grado.
Io sono personalmente favorevole a un ciclo di dodici anni articolato in due moduli di sette e cinque anni, perché mi pare che esistano consistenti sovrapposizioni fra la primaria e la secondaria di primo grado; meno fra la scuola di base e la secondaria superiore. Per chi preferisse continuare, il tredicesimo anno, non più obbligatorio, potrebbe essere utilizzato in modo diversificato, per venire incontro alle esigenze, anch’esse differenziate, degli studenti.
Una prima ipotesi è che si tratti di un anno preparatorio all’università. Attualmente si iscrive subito dopo la maturità circa la metà dei diplomati, con un altro 15% circa che si iscrive dopo un periodo più o meno lungo in cui fa altro: il rapporto Anvur sullo stato dell’università pubblicato martedì 24 maggio valuta gli abbandoni precoci (dopo il primo o il secondo anno) intorno al 20%. Un miglioramento rispetto al passato, ma sono ancora troppi: tra le cause di questo altissimo tasso di dispersione ha un peso non piccolo la mancanza di una preparazione specifica per il settore disciplinare scelto, anche perché sono stati aboliti nel 1969 tutti i vincoli di corrispondenza fra il tipo di secondaria frequentata e il corso di laurea, e i test di accesso, anche dove sono presenti, non sempre accertano il possesso di questo tipo di competenze, e in certi casi perfino delle competenze trasversali. Un certo numero di studenti potrebbe scegliere di non iscriversi subito, ma di frequentare un quinto anno dedicato all’italiano, ad alcune materie strumentali (la seconda lingua, l’informatica) e alle materie dell’area disciplinare che intendono scegliere. Questo consentirebbe anche una verifica dell’effettiva propensione per un certo tipo di studi, riducendo gli abbandoni, i ritardi da cattivo orientamento, e anche i trasferimenti, che comportano comunque dei costi personali e sociali. In queste classi preparatorie potrebbero insegnare i docenti più qualificati, con maggiore esperienza didattica o di ricerca, analogamente a quanto accade in Francia nelle classes préparatoires alle Grandes écoles, segnando un interessante sviluppo di carriera, anche se su piccoli numeri.
Per chi non intende iscriversi all’università, sarebbe possibile “spendere” un anno per facilitare l’inserimento lavorativo. Vedo almeno tre possibilità: un contratto di apprendistato, per chi intende entrare subito sul mercato del lavoro ed ha bisogno di una formazione on the job assistita e regolamentata; un anno di specializzazione tecnico-pratica che dia ampio spazio agli stages, per chi intende proseguire negli Its e nei master o fruire di una ulteriore, anche se breve, qualificazione; oppure un anno all’estero per perfezionare le lingue o completare la preparazione con un master in lingua straniera, con crediti riconosciuti per chi intendesse iscriversi all’università o utilizzarli nella formazione permanente, purtroppo al momento troppo debole per costituire un’alternativa reale.
Anche in questo caso, i docenti tutor potrebbero costituire una nuova figura professionale.
Una scelta di questo tipo, che ho solo molto schematicamente esposto, consentirebbe di terminare prima, oppure di conseguire una qualificazione differenziata in base alle esigenze dei singoli, potenzierebbe i legami dei giovani in formazione con le esigenze dei mercati del lavoro locale, ma anche internazionale, e infine fornirebbe ai docenti migliori qualche possibilità di carriera. Inoltre, spalmando i giovani su varie alternative, eviterebbe i problemi posti da quella che io stessa ho definito all’epoca della legge 30 “onda anomala”, cioè una coorte doppia di studenti che trascinerebbe i suoi effetti perversi per almeno cinque anni sia nell’università che sul mercato del lavoro.