L’accordo Miur-sindacati sulla chiamata diretta — il reclutamento dei docenti da parte dei presidi sulla base di ambiti territoriali, secondo criteri stabiliti centralmente — è durato una settimana, inceppandosi, com’è noto, sul numero dei requisiti a disposizione delle scuole per selezionare gli insegnanti. I sindacati ne vogliono pochi, in modo da poter conservare intatto il ruolo delle graduatorie; mentre il Miur li vorrebbe moltiplicati, in modo da dare più discrezionalità ai dirigenti scolastici. Ma è in ogni caso una discrezionalità i cui paletti sono stabiliti centralmente. Ne abbiamo parlato con Valentina Aprea, assessore all’istruzione della Regione Lombardia e sottosegretario all’Istruzione dal 2001 al 2006. La mia chiamata diretta era un’altra cosa, spiega Aprea al sussidiario. Quella era pensata per le scuole autonome, quella di oggi rimane un’operazione centralistica.
Assessore Aprea, si è rotta la trattativa tra Miur e sindacati sulla chiamata diretta. Come commenta? A cosa stiamo assistendo esattamente?
Stiamo assistendo ad un’attuazione al ribasso anche dei pochi elementi positivi che erano contenuti nella legge 107.
Perché?
Perché da un lato era prevedibile il conservatorismo sindacale contro la chiamata diretta; dall’altro, dopo le proteste degli insegnanti dell’estate scorsa, era altrettanto prevedibile che anche il ministero la snaturasse, burocratizzando la procedura di selezione degli insegnanti da parte dei dirigenti.
Ma chi sta sbagliando?
Anziché puntare sull’autonomia e sulla responsabilità delle scuole, permane sia nei sindacati che nel Miur la stessa volontà di gestione centralistica dei processi delle scuole italiane.
Qui nessuno lo dice, ma l’espressione “chiamata diretta” va attribuita a lei. Che parentela c’è tra la sua chiamata diretta e quella della legge 107?
Sì, è vero che nella proposta di legge che porta il mio nome era previsto per la prima volta la cosiddetta “chiamata diretta”. Ma con due differenze sostanziali rispetto a quella della Buona Scuola. In primo luogo, la mia proposta prevedeva un accesso ad albi di docenti programmato attraverso l’abilitazione. In secondo luogo, si prevedeva una procedura concorsuale di vera e propria assunzione da parte delle scuole o reti di scuole. Invece, la legge 107 ha previsto tre passaggi diversi: un primo livello di abilitazione, un secondo di assunzione attraverso concorso centralizzato come nel passato ed un terzo con un meccanismo farraginoso di assegnazione dei docenti alle scuole. Mi sembra che sia un vero e proprio stravolgimento burocratico della mia proposta semplice e logicamente lineare.
Eppure, la sua proposta era ed è palesemente in contrasto con le modalità di reclutamento statali. Nella scuola si entra solo per concorso, altrimenti il dirigente assume “direttamente” chi gli pare. No?
Questa è una lettura errata. La mia proposta prevedeva a tutti gli effetti un concorso, realizzato dalle singole scuole. Come un Comune assume direttamente per concorso il proprio personale, così avrebbero fatto le scuole autonome.
Le cito una frase di Pantaleo (Cgil), che è dell’altro giorno ma potrebbe essere eterna: “non vogliamo trasformare le scuole in aziende”. Come commenta? Come se ne esce?
Le scuole non devono trasformarsi in aziende, ma devono avere la possibilità di trasformarsi in strutture organizzative efficienti e soprattutto efficaci. Il ministero, invece, deve tornare a svolgere un ruolo di indirizzo, di programmazione, di valutazione. Al contrario, oggi le scuole sono strutture subordinate alla gestione diretta del ministero, che ne continua a governare strettamente l’attività quotidiana.
Se mettiamo insieme la nuova “chiamata diretta” ex legge 107 e il fatto che verranno assunti in questo modo anche i superstiti del concorso 2016, che giudizio si sente di dare?
Il giudizio non può che essere negativo. Non ho condiviso le modalità con cui il piano assunzionale si è di fatto trasformato in una grande stabilizzazione, senza peraltro riuscire a debellare il precariato e la supplentite. Il fatto poi di aver circoscritto gli ambiti territoriali ai soli docenti neo-immessi in ruolo, introduce nuova segmentazione degli insegnanti. Senza contare le difficoltà gestionali delle scuole nel gestire la mobilità straordinaria prevista per questo anno.
Siamo al carosello delle deleghe attuative. A questo punto, a distanza di un anno, un bilancio lo si può fare. Lei all’inizio si era mostrata critica ma ottimista, possibilista. E adesso?
Ero stata ottimista rispetto all’apertura della Buona Scuola a concetti come valutazione, merito, autonomia, alternanza scuola-lavoro, ma devo prendere atto che molti di questi obiettivi sono stati snaturati. Rispetto alle deleghe, sono particolarmente preoccupata da quella relativa al riordino dell’istruzione professionale statale, che di fatto mantiene l’impostazione scolasticistica della formazione professionale statale ed in più rischia di mettere in crisi i sistemi regionali di istruzione e formazione professionale, soprattutto di Regioni che hanno investito per la costruzione di tali percorsi e per il rafforzamento di tutta la filiera professionalizzante fino al terziario, come in Regione Lombardia.
A proposito, cosa può dirci della bozza di questo decreto?
Invade le competenze che sono ancora costituzionalmente riconosciute alle Regioni, ammesso sempre che al referendum vinca il Sì. Ma se anche vincesse il Sì, il decreto delegato non fa minimamente cenno alle risorse che il Miur dovrebbe trovare per finanziare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Se il retropensiero fosse quello di centralizzare tutto, facendone pagare il conto alle Regioni con i loro piani operativi regionali (Por), sarebbe scontata la reazione di tutte le Regioni e non solo di Regione Lombardia.
C’è qualcosa che si può salvare ancora?
Credo che due siano sostanzialmente gli elementi positivi sui quali si può lavorare. Il primo riguarda la diffusione dell’alternanza scuola-lavoro, che mi auguro sia sempre più organizzata con momenti di apprendimento in azienda, andando oltre le modalità dell’impresa formativa simulata.
E il secondo?
Il secondo elemento riguarda l’apprendistato come modalità di apprendimento on the job e per recuperare la cultura del lavoro tra i giovani, che devono poter sperimentare le proprie capacità in contesti lavorativi ancor prima di conseguire titoli di studio superiori e/o accademici.
E sulla valutazione? Anche questa era un suo cavallo di battaglia.
Va potenziata come elemento di sistema senza subire la tentazione di smantellare quel poco o tanto che è stato costruito in questi anni (vedi prove finali esami di stato). In Regione Lombardia stiamo aprendo alla valutazione e al rating anche i sistemi regionali di IeFP. Mi auguro che si investa sempre di più sulla valutazione del sistema scolastico, completando il sistema nazionale di valutazione (Snv) e la valutazione dei dirigenti scolastici.
Ci dica, per concludere, la sua idea di autonomia scolastica, a patto che sia praticabile e fattibile.
Nella mia idea di autonomia e governo della sussidiarietà, le istituzioni scolastiche devono sempre di più potersi organizzare in reti orizzontali e in filiere verticali per strutturare la propria offerta formativa sulla base delle esigenze del territorio e delle potenzialità, delle attitudini e delle aspettative degli studenti e delle famiglie. Una scuola che sappia essere un punto di riferimento per le realtà sociali ed economiche del territorio, ma anche capace di realizzare percorsi personalizzati di apprendimento e nel caso delle scuole superiori, di inserimento lavorativo.
Insomma il centralismo blocca tutto.
Sì, perché la gestione centralistica e burocratizzata ne limita fortemente lo sviluppo anche in termini di evoluzione della didattica e dell’offerta.
E dunque anche dell’organico necessario.
Una scuola siffatta richiede organici flessibili e scelti dagli organismi collegiali di istituto sulla base dell’identità culturale e ordinamentale di ogni istituzione scolastica. Insomma, per erogare un servizio di qualità non sono più sufficienti titoli abilitanti e neppure assegnazioni burocratiche per la copertura dei posti in organico, ma risorse umane e strumentali di volta in volta corrispondenti ai progetti dell’offerta formativa e alle spinte dell’innovazione.
Qual è a sua filosofia sul controverso tema dell’alternanza scuola-lavoro?
Gli istituti, organizzati in rete, dovrebbero poter garantire agli studenti di “studiare in azienda e trovare lavoro a scuola”. immaginando le occupazioni del futuro. E’ ciò che in Lombardia stiamo tentando di fare.
(Federico Ferraù)