“Saremo tutti un po’ più tristi, ora”. E’ la frase che dico ogni volta che con la mia classe termino la lettura di un romanzo che ci ha accompagnato per tutto un quadrimestre o addirittura per un intero anno scolastico. Saremo tutti un po’ più tristi perché il mondo nel quale abbiamo abitato, i personaggi con i quali abbiamo sofferto o gioito, le esperienze che abbiamo vissuto si chiudono con l’ultima pagina del libro.
Anche se, in realtà, a misura della grandezza del libro stesso, quegli avvenimenti, quei personaggi continueranno a restare con noi, dentro di noi. Le figure che abbiamo incontrato nell’universo inventato dall’autore saranno tanto più reali, quanto più hanno saputo incarnare idealmente un carattere, un’aspirazione, un tratto umano che ce lo renderà sempre vicino e addirittura capace di diventare metro di giudizio, termine di paragone con la realtà stessa. Quel personaggio, insomma, rimarrà per noi il modello attraverso il quale leggere l’esperienza di tutti i giorni: incontreremo così tanti Don Abbondio, tanti Achille e qualche Ettore, qualche Bilbo Baggins, diversi Mersault, parecchi giovani Holden, un paio di Amleti, forse.
Ideali perché reali, reali perché ideali, questo è il paradosso dei personaggi dell’universo letterario: l’autore li ha fatti vivere nella loro unicità concreta, nella loro particolarità estrema, nell’ossessiva ricerca di ogni più piccolo dettaglio, tanto da farli apparire reali, veri. E questa loro realtà falsa (nel senso di frutto d’invenzione) diviene per noi un modello vero, un ideale, appunto. E qualche volta, soprattutto gli alunni più giovani, invogliati anche da una pratica che alcuni testi scolastici sembrano purtroppo privilegiare, chiedono conto di cosa sarà successo dopo. Come sarà finita davvero la storia, prof? Renzo e Lucia avranno tenuto duro? O si saranno separati come i miei genitori?
Molti scrittori, soprattutto negli anni più recenti, hanno preso sul serio questa domanda e si sono così viste le opere monumentali di Tolkien, di Lewis, fino ad arrivare alle saghe recenti di Harry Potter, di The Gyver, o, giù, giù, fino agli Hunger Games. Ma una storia finisce: dopo una, due o dieci puntate, s’interrompe. Adesso le telenovelas o le fiction arrivano alle migliaia di puntate, certo, ma poi ti ritrovi che a un certo punto, d’estate o chissà quando, in modo anche arbitrario, le storie finiscono.
Ma se questo vale per le invenzioni narrative, deve valere anche per i resoconti giornalistici? Per le inchieste, per i dossier, per le notizie della cronaca? Pare di sì. Pare che, a un certo punto, del tale omicidio, della tale truffa, della tale inchiesta che per mesi hanno occupato le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi, non si debba più parlare. E non perché si sia arrivati a una sentenza, a una conclusione. No.



Altre ragioni governano questo misterioso scomparire di notizie. Forse anche per loro vale ciò che vale per la letteratura? Perché, per esempio, nessuno dei grandi giornali o delle maggiori testate tv ci ha più raccontato com’è finita la storia di quei due ragazzi di terza media che erano stati sospesi da una scuola della ricca Brianza per una vicenda di droga?
Solo qualche giornale locale ha dato conto dell’epilogo, amaro o felice, a seconda dei punti di vista, che la vicenda ha avuto. La narrazione di quell’episodio (anche qui, a seconda dei punti di vista) aveva creato due fazioni contrastanti, personaggi buoni e cattivi: che cattivi gli insegnanti e il consiglio d’istituto che hanno preso il provvedimento di espulsione dalla scuola e di non ammissione agli esami di terza media per i due che si sono scambiati della droga in classe; che eroe il sindaco che aveva impugnato con un ricorso quella decisione. O, viceversa, che cattivo il sindaco che non sa riconoscere il lavoro educativo dei buoni, degli insegnanti e dei genitori della scuola. Sì, ma poi? Che fine hanno fatto i due ragazzi?
Scopriamo che le pressioni del sindaco hanno investito gli organi più alti dell’istituzione scolastica, pare addirittura il ministero e il provveditorato, che sono intervenuti presso insegnanti e genitori perché rivedessero le loro decisioni. Dunque, la narrazione interrotta ci ha privato anche di questo nuovo protagonista, dalla sensibilità estrema, che, non si sa da quale motivazione mosso (la buona scuola? La scuola buona?) ha a sua volta fatto irruzione nella storia.
Sappiamo solo che, dopo alcuni giorni, il consiglio d’istituto si è riunito rivedendo le sue decisioni, raccomandando al consiglio di classe di fare lo stesso. Perché? Perché probabilmente quella decisione presa in piena coscienza, con grande consapevolezza circa il ruolo educativo della scuola, forse aveva qualche pecca dal punto di vista burocratico, o qualcuno aveva fatto credere che fosse così: insomma, le carte, quelle attorno a cui oggi gira la scuola, potevano non essere tutte in ordine, e qualche ragione il sindaco la poteva avere nel ritenere di fare ricorso e vincerlo. E chi avrebbe pagato poi? Sì, ma intanto i due ragazzi?
Non si può lasciare dei personaggi di una storia per tanto tempo fermi e sperduti nelle pagine iniziali. Consiglio d’istituto e consiglio di classe rivedono la loro decisione sotto le pressioni e le ragioni di carta ormai prevalenti. E la ragazza che aveva avuto la droga dal compagno è stata riammessa alle lezioni dell’ultimo mese. Il ragazzo che la droga invece l’aveva portata, pur non essendo stato riaccolto in classe per le lezioni finali, è stato, come la sua compagna, ammesso agli esami. Ma, come raccontano solo i giornali locali e i tabelloni della scuola, quel che più conta è che entrambi sono stati promossi. 



Nei commenti che molti genitori e alunni hanno scritto, sia sui giornali che sul web, traspare una grande amarezza: hanno lasciato sullo sfondo tutti gli altri personaggi, dicono i commenti, tutti quegli alunni che hanno fatto il loro dovere per un anno e si sono preparati all’esame con impegno e fatica. Che ruolo hanno avuto, loro? Come glielo spieghiamo che non sono solo dei comprimari, o addirittura dei personaggi sciocchi e inutili? Alla fine sembra che chi ha scritto questa storia, insomma, si sia dimenticato di loro. Ma anche di altro: hanno vinto i buoni? Hanno vinto i cattivi? Ma chi erano i buoni e chi erano i cattivi? Ha vinto la scuola? Ha vinto la verità? E’ stato un successo formativo? Hanno perso o hanno vinto davvero i due ragazzi che si sono visti arrivare una promozione così?
Al termine di questa storia, che comunque qualcuno non aveva voluto raccontarci fino alla fine, siamo un po’ più tristi. Ma non è la stessa tristezza che abbiamo provato con i miei alunni quando abbiamo letto quest’anno, con le lacrime agli occhi, l’ultima riga de Il maestro nuovo di Rob Buyea. E’ una tristezza diversa, ancora più grande, se si pensa che intanto,  durante l’estate di questa scuola di carta, si fanno le grandi manovre per togliere i voti e per reintrodurre le lettere nelle valutazioni dei compiti e nelle pagelle. Forse, anche da questo, si capisce chi e che cosa vincerà, chi e che cosa perderà. Speriamo che ci sia ancora qualcuno capace di scrivere una storia diversa, qualcuno che resista e che scriva un finale diverso. Che ci faccia piangere sì, ma per la sua commovente bellezza.

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