Oggi scade il termine per inviare le domande, tramite il portale Universitaly, per partecipare ai test di accesso alle facoltà universitarie a numero chiuso come le lauree sanitarie, veterinaria, odontoiatria e architettura. Sessanta quesiti in 100 minuti a risposta multipla su 5 opzioni, che equivalgono a 1 minuto e 66 secondi per ogni risposta. Come stabilisce il DM 546 del 30 giugno 2016 per l’accesso a Medicina sono previsti “due (2) quesiti di cultura generale; venti (20) di ragionamento logico; diciotto (18) di biologia; dodici (12) di chimica; otto (8) di fisica e matematica”. La prestazione richiesta consiste soprattutto nella velocità di scegliere la risposta giusta, più che nella conoscenza dei contenuti o nelle competenze logiche. 



Stessa cosa per la prova scritta del concorso ordinario per docenti di ogni ordine in corso di svolgimento. La prova scritta era strutturata su otto quesiti a domande aperte, di cui due in lingua, con un tempo complessivo di 150 minuti. Oltre al livello delle conoscenze era richiesta la competenza didattica con formulazione di unità di apprendimento, percorsi multidisciplinari su vari argomenti e quesiti in lingua. Anche il concorso per dirigenti scolastici del 2012 aveva previsto una prova selettiva di accesso con 100 domande a risposta multipla da svolgersi in 100 minuti. 



La modalità che sembra essersi affermata per la selezione sembra ormai quella che dà la priorità alla prestazione, cioè la scelta di contenuti in un tempo ristrettissimo senza la capacità riflessiva. Memoria e velocità sembrano le capacità più richieste. E il nozionismo che era uscito dalla porta è rientrato, alla grande, dalla finestra.  C’è chi pensa che dietro questa scelta ci siano delle elaborate strategie di psicologia della lavoro, che portino con sé anche un elevato grado di oggettività. Assolutamente no. È, come sempre, un banale problema di costi. I tempi di correzione e di valutazione sono ridotti all’osso. Vuol dire commissioni più snelle che correggono le prove direttamente sul supporto informatico.



La questione dei test di accesso all’università è poi più paradossale. Non misurano la preparazione culturale di un candidato, perché altrimenti a cosa serve l’esame di stato alla fine delle superiori?, e non permettono un serio orientamento. Se l’esame di stato viene superato dal 99,5% dei candidati i quali poi devono passare una seconda selezione, quella vera secondo gli atenei, è lecito chiedersi: perché una stortura simile? Perché un doppio esame, che spesso si sovrappone nei tempi, e mentre gli studenti sono impegnati nel macchinoso esame di maturità devono anche occuparsi di preparare i test per l’accesso alla formazione terziaria?

La stessa incongruenza è venuta a galla a proposito del concorso a cattedre. Per poter accedere era necessario il titolo di abilitazione, che i futuri prof avevano acquisito con il Tfa, il Pas, o addirittura con le vecchie Ssis. In quell’occasione avevano superato prove di ogni genere, contenutistiche, metodologiche, multidisciplinari. Ora il concorso ha riprodotto lo stesso meccanismo, ma in pillole. Un assurdo voluto dalle demoniache burocrazie ministeriali, che fanno e disfano a piacimento, con un ministro che nemmeno si accorge cosa accade nella porta accanto, o forse dice in un modo e agisce in un altro. 

In questa bolgia infernale, a rimetterci sono gli studenti che vedono affidato il proprio destino a quiz spersonalizzati, che servono solo a selezionare, ma non a permettere l’accesso a chi ha motivazioni e intende essere formato. Un noto professore, ordinario di cattedra, semplificando, ha ribadito che i test di ingresso a medicina, selezionano soltanto un range di futuri medici, quelli particolarmente dotati di capacità culturale. Sono però esclusi tutti quei giovani, motivati, intuitivi, dotati di un sapere pratico e che potrebbero dedicare la vita alla professione intesa come una disciplina che cura, che mette a tema i pazienti e non che conosce a menadito manuali e tecniche. 

Per tornare poi alla formazione dei futuri docenti, in questo ballare di prove, una cosa è stata completamente dimenticata: l’educazione. Sì, il concorso a quiz, cosi asettico, esclude totalmente la possibilità di valutare le abilità educative. Se un docente abilitato deve dimostrare la capacità di stare in classe, non lo si può sottoporre ad altre prove teoriche, ma lo si deve mettere al lavoro tra gli studenti, misurato e accompagnato da tutor che ne valutino le reali capacità didattiche e umane. In questo modo la docenza ritornerebbe a essere l’arte del far crescere, più vicina ai valori umani come certa pratica medica, più che uno zibaldone di teorie pedagogo-didattiche che hanno la pretesa di essere esatte, ma che alla prova dei fatti di ogni aula scolastica si rivelano solo delle banali e spesso datate interpretazioni.