Ma, di preciso, a che cosa serve il latino? Alla domanda risponde Nicola Gardini, docente di Letteratura Italiana a Oxoford, con Viva il latino (Garzanti, 236 pp., 16,90 euro), provocatoriamente sottotitolato Storia e bellezza di una lingua inutile, sulla scia del successo di Nuccio Ordine con L’utilità dell’inutile. E dunque, ricorda Gardini, a generazioni di studenti è stato inculcato il mantra: “Studia latino! Sviluppa le capacità logiche!” (Ma perché, l’algebra o la chimica non bastano a rafforzare memoria e logica? Per la memoria “bastano anche solo le pagine gialle!”, p. 209); “Studiare una lingua flessiva sviluppa le capacità linguistiche” (Ma perché limitarci al latino, che di casi ne ha “solo” sei? Studiamo il sanscrito, che ne ha otto, o altre lingue, che hanno dieci, dodici, anche diciotto!).
Se la difesa del latino è questa, porta acqua al mulino degli “inutilisti” (quelli che qualche anno fa, per intenderci, sostenevano che la scuola dovesse puntare sulle tre I: Inglese, Informatica, Impresa; e, consentitemi, sulla quarta, Ignoranza): lo studio del latino, non lo nascondiamo, se fatto seriamente (non all’acqua di rose, solo con un po’ di letteratura in traduzione, come auspicano certi presidi, per tenere alto il numero delle iscrizioni) è impegnativo, agonistico, faticoso, e non va finalizzato a rendere agili le meningi. È come una bella passeggiata in montagna, ritemprante di per sé.
Dire che si studia il latino solo per sviluppare la logica e la memoria è come dire: andiamo al Louvre per acuire la vista e alla Scala per vivificare l’udito. Si studia il latino, spiega Gardini (e qui, da docente di latino, non posso che applaudire), in modo chiarissimo, perché è la lingua di una civiltà; perché nel latino si è realizzata l’Europa, la sua storia, le sue lingue (lessico, e grammatica); e il pensiero, che ha come sostegno e sostrato la lingua e che in essa si riflette. Per esemplificare: io cammino per le vie di Roma, o Vicenza o di una qualsiasi delle nostre città e non posso ignorare che sotto le vie ci sono cripte, catacombe, fondamenta e reperti archeologici, che l’impianto delle vie, i monumenti, persino il nome della città sono esito di una storia di cui anche io, con il mio modo di pensare e di parlare faccio parte. E non lo posso proprio ignorare, anche se per quel giorno decidessi di guardare unicamente le vetrine; anzi, potrei, magari, decidere di guardare per quel giorno solo le vetrine, ma se il mio orizzonte fosse quello e solo quello, sarei infinitamente più ignorante, meno consapevole, in una parola, più povera.
Inoltre (pp. 209-211), Gardini, contro gli “utilisti” come pure contro gli “inutilisti” ci ricorda un altro motivo, anche più importante, per cui studiare il latino: perché è bello e “la bellezza è il volto stesso della libertà”, tanto che, fateci caso, una delle cose che più balzano agli occhi dei regimi totalitari è la bruttezza, diffusa in ogni aspetto della vita. E dicendo che il latino è “bello”, perché è una lingua “varia, duttile, insieme facile e difficile, semplice e complicata, regolare e irregolare, chiara e oscura, dai molteplici registri e gerghi, dalle mille retoriche, dai mille stili”.
Gardini passa poi in rassegna, in una personalissima antologia che occupa buona parte del volume (pp. 53-196), filtrata attraverso gusti, aneddoti e ricordi personali, i principali autori latini: Ennio, Lucrezio, Catullo, Virglio, Seneca, Orazio, Persio e Giovenale. C’è un lodevole coraggio, di questi tempi, nel proporre i testi anche in lingua originale, e si sente la mano del traduttore e poeta, in questa selezione, che ha per ogni autore un’osservazione, una definizione di curiosa felicitas, di rara felice precisione: per esempio, sentite qui: “il mondo di Virgilio non sta tutto al sole” (p. 135, a partire dall’osservazione di quante volte ricorra la parola umbra); Tacito è l’essenza del latino: con sensazione, efficacia, pienezza, chiaroscuro. Via il troppo, via addirittura l’essenziale se è desumibile” (p. 99); “Orazio ci viene incontro come esempio di opposizione alla volgarità” (p. 198).
Altro cliché smontato da Gardini è che il latino sia una “lingua morta”, espressione infelice nata da una concezione sbagliata della vita delle lingue e della distinzione fra scritto e orale. Il latino di Quintiliano e Catullo, quello che studiamo a scuola, codificato dalle grammatiche, è la lingua della letteratura, e come tale non è mai stato parlato, nemmeno in età classica. Neanche Cicerone, per intenderci, parlava alla moglie, agli amici, e ai suoi schiavi nella lingua delle sue orazioni, nè certo Cesare non parlava ai legionari con la feroce codificazione stilistica dei commentarii. Noi, ingenuamente, identifichiamo l’espressione orale con la vita tout court.
Ma sbagliamo, e di grosso: il latino non è più parlato, ma è testimoniato da tantissimi manoscritti e nella letteratura (vi dice niente Orazio? “Ho innalzato un monumento più durevole del bronzo, e della regale mole delle piramidi…”); se dunque permane nella forma scritta più elaborata, nella letteratura, come può essere morto? È anzi vivo, vivissimo, molto più vivo di quello che diciamo agli amici al bar o al collega al lavoro. Dei miliardi di parole e frasi che si pronunciano ora nel mondo, mentre leggete queste righe, tanta mole è già sparita, e ne subentra un’altra, anch’essa deperibilissima. Perché una lingua sia viva, non basta che siano vivi i parlanti: viva è la lingua che dura e che produce, altre lingue (le lingue neolatine) o altra letteratura: Dante non avrebbe scritto la Commedia senza Virgilio; Castiglione non poteva scrivere il Cortegiano senza Cicerone alle spalle; tanta poesia inglese è intrisa di Orazio. Insomma, Viva il latino è un atto d’amore nella letteratura, nella sua dignità e importanza.
Da docente di latino, pagata (forse poco) per studiare e spiegare cose belle come Tacito e Lucrezio, lo so, parlo un pochino pro domo mea: continuiamo a studiarlo, a tradurlo, soprattutto, a preservare il liceo classico; e firmiamo la petizione taskforceperilclassico.it: probabilmente, anche Gardini la sta firmando in questo momento.