Atti di un Processo — Il Processo al Liceo classico (Collana della Fondazione per la Scuola, il Mulino, 2016) “messo in scena al Teatro Carignano di Torino nel novembre 2014”, non aggiungerà novità ai processi all’italiana. Assolto dalle imputazioni di “inganno, inefficienza, iniquità” — ossia dall’accusa di essere un prodotto del fascismo gentiliano, di formare una casta di notabili e di essere incapace di istruire i borghesi moderni — il nostro liceo può tornare a dormire sonni tranquilli. Anche nel caso si trovassero nuovi capi d’accusa, secondo la “Corte” per ora “non risultano individuati responsabili”. Tutti assolti e sonni tranquilli.
Al processo poi, come d’uso, dissero la loro avvocati, giornalisti, docenti universitari, politici, burocrati, ex ministri. Dei diretti interessati, gli insegnanti liceali, neppure l’ombra. Andrà però notata la solerzia con cui la casa editrice il Mulino, dopo soli due anni dalla “Sentenza”, ha pubblicato gli Atti processuali. Solerzia motivata dall’ “onda dell’emozione suscitata in queste ore dalla notizia della scomparsa di Umberto Eco. Una perdita inestimabile per la cultura, l’università, la ricerca, la scuola e più in generale per la società e la democrazia, come attesta la commozione in tutto il mondo” (Premessa). Si trattava di un omaggio non generico al professore, avendo ricoperto in quel processo fittizio il ruolo di Avvocato della Difesa.
Noi, per il momento, seguendo umilmente l’esempio di un Classico, preferiamo non cavalcare “l’onda dell’emozione” e “lasciare ai Posteri l’ardua sentenza” sulla “gloria” dello studioso e dello scrittore. Tuttavia, insieme a Umberto Eco, per una volta vorremmo anche noi peccare d’ottimismo: il liceo classico mostrerà solide ragioni per sperare di sopravvivere a beneficio delle generazioni venture.
Certo, non siamo a tal punto sprovveduti da non riconoscere, tra gli odierni lodatori delle “riserve indiane” in cui pare sopravvivere il classico, molte di quelle voci che un tempo avevano incitato allo sterminio degli arcaici e selvaggi pellerossa (greci e latini); avevano imposto alla storia una nuova direzione (qualunque essa fosse, purché scientifica e moderna); avevano infine progettato di cancellare dalla faccia della civiltà occidentale i trogloditi residui dei totem e dei tabù ancestrali. L’avvento del postmoderno, riconosceva con estrema lucidità nel 1979 Françoise Lyotard, significava “aspettarsi una radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al ‘sapiente’ […]; l’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso”.
Il sapere non passava più attraverso un uomo, un maestro, un autore, con tutto il carico (il peso) delle sue esperienze. Le linee guida della futura istruzione (da quelle europee a quelle nazionali) erano già segnate senza appello quarant’anni fa all’insegna della leggerezza: “Nella sua forma di merce-informazione indispensabile alla potenza produttiva, il sapere è già e sarà sempre più una delle maggiori poste, se non la più importante della competizione mondiale per il potere”.
Esso dunque, potrà circolare “solo se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione”, “standardizzato, miniaturizzato”, spersonalizzato; mentre tutto ciò che non soddisferà tale condizione, verrà abbandonato.
Il senso del classico e il significato della rosa — Anche Umberto Eco, a modo suo, aveva animato la vivace stagione delle Neoavanguardie, dei Gruppi ’63, delle Opere aperte. Aveva efficacemente contribuito a definire il canone della Condizione postmoderna. Nel 1970 fu visto beffeggiare davanti alla società di massa i vizi endemici dell’italiano medio e, insieme al sardonico Paolo Poli, demolire sornione il greve moralismo del Libro Cuore. Non però annidato nei tuguri dell’esilio, ma dal bianco e nero della TV di Stato. Aveva guidato poi le Scienze delle Comunicazioni all’assalto delle facoltà letterarie, importando le Semiotiche della Scuola di Tartu, e con alacre acribia decostruiva i Classici Fondatori, attualizzando con la sagacia di Holmes i Francescani del Medioevo. Come in un bricolage virtuale e interattivo, simboli e allegorie diventavano frammenti buffi come fumetti: nel suo best seller, i buoni (che parlavano un volgare alla Dario Fo) si emancipavano scoprendo i piaceri dei peccati veniali; i cattiven parlavanen Latinen comen gli Sturmtruppen il Tedeschen: era l’apogeo della Santen Inqvisitionen. Paradossi del mondo moderno: il rottamatore di Manzoni, teorico delle opere aperte, riscuoteva consensi planetari ricucendo, novello dottor Frankenstein, i brandelli di quel superato genere letterario chiuso e antiquato, producendo infine il monstrum che tutti conosciamo. Il nome della rosa scalava le classifiche del Nulla: Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus. Era l’apoteosi della Gaia scientia litteraria.
Forse anche per questi trascorsi, nella sua postuma e finora inedita arringa difensiva, il professor Eco deve pagare il dazio a molti luoghi comuni: che “avere un’educazione classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria”; che il richiamo alla storia non significherebbe proiettare il liceo classico verso il passato, ma rivelerebbe la cognizione di una historia magistra: Napoleone e Bush avrebbero perso le loro guerre per insufficiente cultura storica. Anche la scienza di Heisenberg o di Einstein poté “giocare a dadi con Dio” perché sapeva di filosofia e finanche di “teologia”.
“Da quando ho scritto Il nome della rosa — scriveva nelle Postille — mi arrivano molte lettere di lettori che mi chiedono cosa significa l’esametro latino finale, e perché questo esametro ha dato origine al titolo. Rispondo che si tratta di un verso da De contemptu mundi di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo, […] salvo che Bernardo aggiunge […] l’idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi”.
Non ci stupiremo allora se lo studio della profondità del presente (questa la vocazione del Classico, noi crediamo) spesso non rimanga che studio erudito di un passato morto, dal momento che solo nomina nuda tenemus. A meno che la nudità delle parole non sia il necessario preludio al loro uso comunicativo, pubblicitario, mediatico, politico: e mai artistico e autenticamente contemplativo, popolare e aristocratico insieme.
Ben altrimenti pensava il collega semiologo Roland Barthes, quando ricordava: “Ancora una volta Nietzsche: ‘L’unico sbocco sano e naturale di una cultura classica, come si dice, è l’abitudine di usare con serietà e rigore artistico la propria lingua materna’…” (Écrits postumes). Educare alla profondità (alla pienezza di senso) di cui ogni linguaggio del presente è vestito: questo lo “sbocco sano e naturale di una cultura classica”, non denudare i nomi. Altrimenti, un classico qualsiasi, per non essere cancellato dalla Storia, dovrà inventarsi un’utilità, una giustificazione di pratica necessità, un vantaggio, una profezia. Nelle pagine di Eco, ad esempio, Manzoni diventa un “filosofo, che intuisce le trame dello Zeitgeist“, un Profeta dello Spirito del tempo. Sarebbe un grande autore perché avrebbe previsto il senso moderno della storia, non per aver scritto quel che ha scritto. Salvaguardiamo così i gusci, i fiori secchi. Ma perdiamo il profumo della rosa, la sua calda vitalità. Tutto lo sforzo linguistico del Gran Lombardo, per dire il vero nella lingua di tutti, si riduceva ad una strategia editoriale: “lo vedete con quanta ipocrisia e serenità parla dei suoi venticinque lettori. Venticinque milioni, ne vuole”. Meno male che il professor Eco non venne chiamato alla difesa in un Processo al Manzoni: quando con tutte le migliori intenzioni valorizza un Autore del passato, questi ne esce fatto a fettine come il peggior rivale. Meglio interpellarlo in veste di Pubblica Accusa.
Preferiremmo allora piuttosto questa concezione del senso storico Classico: il signore della lingua, diceva Orazio, è l’uso, è il presente, il tempo in cui l’artista può attingere il significato delle cose che si rivelano nel loro passare e permanere. Il Classico è innanzitutto affare del Poeta. Lo ricordava anche uno dei testimoni convocati al processo, il professor Canfora Luciano: la storia è sempre storia contemporanea: come dire che lo studio dei classici è sempre e solo lo studio della contemporaneità di ogni evento, visto nella sua classicità, ossia nella sua profondità di senso. Basterebbe intendere questa semplice verità per non aver dubbi sul mandare assolto il nostro liceo, dichiarandolo addirittura il più atto ad intendere la profondità complessa del mondo contemporaneo.
(1 – continua)