Corsi e ricorsi della storia scolastica. Questione di tempo e si tornerà a lasciare da parte i voti per approdare a nuove forme di valutazione degli allievi. Così infatti è orientato un decreto attuativo di una norma prevista dalla legge sulla Buona Scuola. Non è la prima volta che i voti tornano in discussione, tipico esempio di continui e ravvicinati cambiamenti, mentre la credibilità della scuola reclama solidità e durata delle innovazioni.
Questi i fatti. I docenti meno giovani certamente ricordano la svolta del 1977. Dopo una lunga e consolidata tradizione di votazioni numeriche (da zero a 10 e 10 e lode) in quell’anno si optò — limitatamente alle scuole elementari e medie — per una valutazione espressa attraverso giudizi analitici e sintetici. Nel momento in cui la scuola italiana cessava di essere “selettiva” sembrava necessario che anche i criteri di valutazione seguissero principi nuovi. Più che fotografare con un voto il rendimento di un alunno, si voleva tracciarne il percorso compiuto e quello ancora da completare. Proprio quello che si vorrebbe fare oggi.
L’incarico di mettere a punto l’apposita scheda di valutazione fu affidato a Luigi Calonghi, uno dei più noti, apprezzati ed esperti studiosi di docimologia. Il passaggio dal voto al giudizio non fu tuttavia mai pienamente metabolizzato dal mondo della scuola. Si arrivò in qualche caso a incredibili esagerazioni che dimostravano l’incalcolabile fossato che si era aperto tra voti e giudizi. Gruppi di genitori e insegnanti in varie scuole giunsero infatti a concordare vere e proprie tabelle di conversione dei giudizi espressi in forma descrittiva dai docenti in voti tradizionali.
L’incomprensione per il lavoro pedagogicamente ineccepibile di Calonghi si tradusse qualche tempo più tardi in modalità basate sull’impiego di aggettivi (insufficiente, sufficiente, buono, ecc.) fino a che il ministro Gelmini, nel 2008, decise di ripristinare l’impiego del voto e tornare alla tradizione antica. La raccomandazione (saggia) era che le valutazioni fossero sempre accompagnate da brevi giudizi perché — lo sanno anche gli alunni più piccoli — un numero non può riflettere la complessità della personalità di un allievo e neppure i suoi sforzi.
Gli esperti ministeriali suggeriscono ora di praticare una terza via, proponendo di ricorrere — con una ripresa un po’ provinciale di prassi in uso in altri Paesi — le lettere dell’alfabeto, dalla A alla E, ciascuna delle quali cadenzata rispetto al processo di apprendimento, la A equivalente al pieno raggiungimento dei risultati attesi, la E impiegata invece per l’inadeguatezza dell’esito scolastico.
Si dice: le lettere suggeriscono la descrizione di un processo, i voti rappresentano una situazione statica. Può darsi che le lettere abbiano questo potere taumaturgico. Ma anche i voti accompagnati da appropriati giudizi possono svolgere la stessa funzione nonché — ovviamente — i tanto vituperati giudizi annegati, a suo tempo, nell’incomprensione generale.
Vien da pensare che dietro le lettere ci sia una manina ideologica che non ha digerito il ritorno al voto. Per fortuna la sostanza della scuola e la sua qualità non dipendono da queste piccole rivincite di retroguardia. Forse sarebbe più prudente lasciar perdere.