Caro direttore,
scrivo sollecitata dai molti articoli che, in questa estate particolarmente calda per la scuola, stanno comparendo sui diversi social, blog e testate giornalistiche.
Numerosi pensieri, riflessioni e domande sono sorti in me nel corso di quest’anno.
Sono stata immessa in ruolo nella fase A del piano straordinario di assunzioni previste dalla legge 107/2015, la “Buona Scuola”. Ho preso servizio in una classe di concorso in cui non avevo mai insegnato, chiamata da una graduatoria sulla quale non avevo maturato punteggio e così, dall’insegnamento di italiano e latino in un prestigioso liceo paritario di Milano, sono entrata nel mondo della secondaria di primo grado nella scuola statale.
Quelle che seguono sono alcune riflessioni che hanno il vizio di parte del mio punto di osservazione. Le offro al dialogo come l’emergere di ciò che, lungo il corso di quest’anno, ho guadagnato.



Riflessioni di un anno di prova — Quando ad agosto 2015 ho scelto la scuola in cui avrei prestato servizio sapevo di prendere una cattedra “di fatto” e non “di diritto”, e che la situazione era di per sé precaria, anche perché si sarebbe trattato in ogni caso di una sede provvisoria.
Motivi personali mi hanno indotto a questa scelta, e ora non la cambierei. Sapermi lì per un anno mi ha liberato dalla pretesa che il successo o l’insuccesso dei miei studenti sia unicamente nelle mie mani, e invece che gettarmi in un disimpegno ha favorito la coscienza del carattere transitorio e allo stesso tempo definitivo del mio lavoro. Tutto doveva essere giocato nel qui e nell’ora. Sapevo che avrei insegnato lì un anno, poi si sarebbe visto. Ho partecipato alle fasi di mobilità per ottenere una sede definitiva. Mi hanno trasferito d’ufficio senza sede, e ora — per una serie di fattori — sono in attesa di fare domanda di utilizzo, per tornare se è possibile dove ho lavorato quest’anno. Riemerge la pretesa che tutta questa vicenda mi ha così faticosamente strappato dalla carne? Mi vengono in mente i volti dei miei studenti. Qualcuno lo incontro anche per strada, ogni tanto (è il vantaggio o lo svantaggio di insegnare nel paese in cui si vive). “Prof, ci sarà l’anno prossimo?” mi chiedono in tanti.
Dalla prima media hanno visto il susseguirsi, nel loro consiglio di classe, di diversi docenti, talvolta anche in corso d’anno. Questo chiede loro di cambiare, di adattarsi a nuovi metodi d’insegnamento, di farsi conoscere, di misurarsi con persone diverse, ed è sicuramente positivo. Ho seguito le tracce della docente che mi ha preceduto, inserendomi nel suo lavoro al punto in cui era arrivata, e anche dove avrei fatto diversamente da lei ho pian piano messo del mio, per evitare brusche salite o scossoni che avrebbero disorientato i miei alunni. Ho pian piano guadagnato la fiducia della classe.



Guardando indietro il lavoro svolto, riconosco dei passi. Accadrà sicuramente così anche se l’anno prossimo non dovessi rientrare nell’aula dell’ultimo piano che mi ha ospitato quest’anno. E se sarò nella sede nuovamente provvisoria che mi è stata assegnata lavorerò allo stesso modo. Tuttavia mi chiedo dove finisca quella continuità didattica che i risultati di alunni con consigli di classe più stabili mostrano come arma vincente. Mi chiedo dove finisca quel bisogno di punti di riferimento che mi sono sentita addosso ogni volta che varcavo la soglia dell’aula. “Ci aiuterà l’anno prossimo a scegliere la scuola superiore, vero?”.
Mi chiedo ancora di più.
Sapendo più o meno sempre quali classi avrei avuto a settembre, nei tempi in cui ho lavorato nelle scuole paritarie ero abituata a luglio a programmare, a progettare almeno a grandi linee quello che sarebbe stato il corso dell’anno, a studiare gli argomenti che avrei dovuto affrontare, ad approfondire. Confesso che quello trascorso è stato un luglio un po’ strano per me. Ho letto e studiato molti dei libri che ho comprato con i 500 euro che ci sono stati assegnati per la formazione, e di cui ho goduto come di un investimento sulla mia professionalità. Non so però dove, come e se spenderò nel terreno didattico quello che ho imparato. L’incremento della consapevolezza culturale ed epistemologica del docente è certamente sempre un guadagno per gli studenti, che in maniera indiretta beneficiano dell’inutilità gratuita e preziosa della conoscenza di cui si nutrono i loro insegnanti. Se coltivo “il cuore e la mente” (come dice Gaber in una illuminante canzone che tengo a monito del mio lavoro) è già tutto. Però è stato un luglio strano.
Ci hanno fatto progettare, nello svolgimento delle attività didattiche per l’anno di prova, fin nei minimi dettagli, tenendo conto delle necessarie modifiche che occorrono quando l’ipotesi incontra l’elemento concreto per cui è stata pensata. Ci hanno fatto poi riflettere sulla progettazione. Ci sono scuole che si trovano a pensare l’anno scolastico successivo in un mare di incertezze. E quest’anno, con le delicate fasi di mobilità e l’intrecciarsi con esse del concorso, credo che questo balletto a me prima sconosciuto sarà ancora più difficile.
Che cosa potrebbero scrivere sulla piattaforma Indire questi istituti?
“Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le pernottazioni e le prenotazioni” abbiamo imparato con Montale dai nostri banchi di scuola, quando ancora stavamo al di là della cattedra e ascoltavamo le lezioni dei nostri insegnanti. E se è vero che “un imprevisto / è la sola speranza”, è vero anche che se ci si imbarca in una traversata complessa, ricca e delicata come quella di un anno scolastico, avere delle sicurezze in più non è di impedimento.



Alcuni amici, immessi in ruolo nel 2015 da graduatorie a esaurimento o nella fase 0 e A della 107 e che hanno voluto (o dovuto) presentare domanda di mobilità per il prossimo anno scolastico, si sono trovati sull’organico di potenziamento, con cattedre variamente articolate. “Quali progetti ha?” si è sentito domandare qualcuno da vicepresidi o presidi che li hanno ricevuti.
Quali progetti abbiamo? Entrare in classe, fare il nostro lavoro, insegnare le materie per le quali tanto abbiamo studiato, ci siamo laureati, abilitati, è troppo ambizioso?
Anche qui, a ben vedere, c’è del positivo. I bisogni delle scuole si moltiplicano sempre più. Sono stati fatti i Rapporti di autovalutazione, e conseguentemente ad essi i Piani di miglioramento. Ogni scuola ha identificato le aree in cui si sente bisognosa, o gli spazi che vuole sviluppare. Il ministero ha messo a disposizione delle risorse, cioè gli insegnanti assunti nella fase C, che hanno preso il ruolo e svolto un lavoro onorevole e pieno di risultati dove la serietà del collegio docenti e del dirigente scolastico ha saputo investire in tal senso, anche quando le risorse assegnate non coincidevano con quelle richieste.
Non sono leggende metropolitane ma esperienze di docenti “tappabuchi”, che hanno svolto supplenze o trascorso il tempo in sala professori a bere il caffè. Forse in questo c’è un concorso di colpa tra le parti, ma è una situazione che va tenuta presente. Io stessa avevo una cattedra articolata in diverse attività e ho svolto progetti didattici variegati. Non per tutto ciò che ho fatto ero preparata. Ho fatto quello che dovevo cercando di imparare e ricavare il meglio che potessi, per me e per gli alunni. Mi trovo ora cresciuta dal punto di vista professionale, per quella dinamica sempiterna e universale per cui “le tribolazioni aguzzano l’ingegno”, come accade a Renzo dopo la proposta del matrimonio clandestino fatta da Agnese. Tuttavia non posso negare la percezione di disorientamento che in alcuni momenti dell’anno ho provato.
Quali progetti abbiamo? Ma tu, scuola, quali progetti hai? In che modo si possono incontrare i tuoi interessi e le mie competenze? Rispondere a domande di questo genere è vitale per la soddisfazione di ogni protagonista della scuola.
Da una parte ho l’impressione che — forse anche finalmente — agli insegnanti sia chiesto di diventare imprenditori di sé stessi; dall’altra mi sembra però che ci sia bisogno di chiarirsi le idee. C’è infatti, in tutto questo discorso sui progetti, qualcosa che a mio parere rischia di sfumare sullo sfondo.
Che cosa è la scuola?
Cosa la differenzia da un qualunque centro ricreativo? Ci ho riflettuto a lungo, e non ho trovato, sotto differenze pure evidenti che però ad essa fungono come da corollario, che un’unica, sostanziale qualità: la scuola opera attraverso le discipline, cioè le materie. 

L’italiano, la storia, la geografia, le scienze, la matematica, l’educazione artistica… Perché è così? Rispondere richiederebbe spazi e tempi ben più lunghi di queste pagine e un’accurata indagine che porterebbe a continui passaggi dall’antico al moderno, nella riscoperta e rilettura del sapere di cui è costituita la nostra civiltà. Stando così le cose, però, ne deriva una semplice osservazione, che pongo sotto forma di domanda: chi sono gli insegnanti? Cultori della materia, depositari di una specializzazione, persone che hanno fatto della trasmissione del loro sapere la propria professione. Se è così o se è così che vogliamo ancora che sia, è questo che dovrebbe essere in primo piano. Nella mia esperienza di studio prima e di insegnamento poi, numerosi episodi mi hanno convinto che è l’incontro con un oggetto specifico, sia esso un testo letterario o una legge di fisica, a far crescere e maturare, perché chiede il confronto con altro da sé. 

 

(1 – continua)