Continua la riflessione dell’autrice sui problemi, le sfide e le opportunità di un anno di prova affrontato nella scuola statale. Leggi qui la prima parte.

Gli insegnanti e la valutazione — Le dimensioni di quello che, uscita dall’università, credevo fosse il mondo dell’insegnamento si sono pian piano allargate nel corso di questi anni, a volte a prezzo di turbolente deflagrazioni, altre volte in maniera più lenta e delicata.
Nei primi tempi provavo un timore reverenziale nell’appuntare le mie correzioni sui compiti degli studenti, soprattutto nei temi: quei segni con la biro rossa mi sembravano un’intrusione nel mondo che mi trovavo davanti, degno di rispetto e ammirazione. Col tempo la timidezza si è ritirata, lasciando il posto ad una più chiara consapevolezza di che cosa sia la valutazione: un’indicazione, un segnale, una via da seguire. “Sei sulla strada, sei fuori strada; presta attenzione, perché il tuo appiglio nella parete della conoscenza non è ben saldo, potresti cadere o non andare avanti” oppure “bene così, continua con questi passi” o “lega meglio la corda, così il cammino diventa più solido e sicuro”, oppure ancora “fammi capire perché vuoi passare di qui; a me laggiù, nella roccia, quel passaggio sembra migliore”. È questo che ha incrementato il rispetto e l’ammirazione per il lavoro dei miei studenti: sentire la responsabilità di avere compagni di viaggio su un cammino già percorso per condurli passo passo con me alla meta.
Tutti i giorni gli insegnanti hanno a che fare con la valutazione, anche se fortunatamente non sempre prende la forma di un numero che, pur assegnato sulla base di criteri che si vogliono oggettivi, reca sempre l’impronta dello sguardo di un essere umano pieno di limiti che però osa giocarsi, spendersi, a volte sbilanciarsi. Tutti i giorni gli insegnanti danno giudizi, esprimono il loro parere su un dato studente, su un risultato, su un compito di matematica sbagliato o un comportamento più o meno ligio al dovere. Esercitano spesso (a torto o a ragione, in maniera affrettata o più equilibrata, come valorizzazione o talvolta purtroppo come punizione) questa loro prerogativa sugli studenti.
Ora, perché gli insegnanti hanno così paura di essere valutati? Che cosa li spaventa? Perché valutare sembra un privilegio ed essere valutati un disonore? Certo, essere valutati chiede molto. Chiede di non concepirsi come “arrivati”, di riconoscere cioè di avere molto da imparare; chiede di riflettere, di dare ragione di ciò che si fa e di come lo si fa, di avere chiarezza sullo scopo del proprio lavoro, di avere obiettivi. Essere valutati chiede di avere quella certezza di sé che sola sa mettersi in discussione, perché non ha niente da difendere. Essere valutati chiede di cambiare, di accettare e vagliare le critiche, di compiere il faticoso cammino dello sviluppo professionale che fa dei limiti punti di forza, risorsa che attiva una ricerca guidata dalle domande che sorgono e portano a cercare nuovi strumenti e ad aggiornarsi in modo funzionale al bisogno.



Ho svolto il percorso formativo dell’anno di prova; ho risposto alle domande della piattaforma Indire, ho steso le attività didattiche richieste, ho partecipato ai laboratori formativi, sono stata osservata da tutor e dirigente, e infine ho presentato il mio lavoro di fronte al tanto discusso comitato di valutazione. Ho presentato cioè il mio lavoro a persone competenti, in cui ho trovato il desiderio di conoscere e capire.
Ho letto diverse polemiche sulla modalità di formazione, e il labirinto della piattaforma Indire ha talvolta messo in crisi anche me. Ma è stata una grande possibilità, innanzitutto di confronto e riflessione. Un modo dentro la burocrazia e la formalità cui tutto si può ancora ridurre per arrivare al cuore di che cosa è l’educazione, di interrogarsi, di crescere. Sono stata a scuola anch’io quest’anno. In tutti i sensi.



(2 – continua)

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