Carissimo,
sono Francesca, la tua professoressa d’italiano delle medie, quella della nuvola azzurra dentro cui scomparivo con il professore di disegno. Ebbene, ho letto il tuo articolo, e ti ringrazio per quello che dici sul mio conto. Mi piace anche come, nonostante la tua età non possa essere più quella di un ragazzino, visto che eri mio alunno alle medie nel ’69, tu sia capace di appassionarti ancora per il posto in cui lavori, per il mestiere che fai dopo tanti anni. Tanti anni in cui, dici, hanno costruito a metà, distrutto, sbagliato: io non ho visto la “Buona Scuola”, ho la fortuna di essere andata in pensione in un’età in cui i miei alunni non mi vedevano come una bisnonna, come forse invece capiterà a te.
Ma in fondo al tuo articolo ti sento dire che “c’è bisogno di qualcuno che sappia guardare le macerie, che anzi non si metta a piangere sulle rovine, ma considerando quelle rovine come la materia che è a nostra disposizione, ne faccia materiale per costruire”. Alla mia età posso dirti invece che questo è vero ma solo nel rapporto con gli alunni, e solo nella misura in cui, come dicevamo noi negli anni settanta, l’Apparato lo consente. Ma il giocattolo-scuola in sé, invece, mi sembra irrimediabilmente compromesso, con una malattia inguaribile addosso, prostrato in una condizione insanabile. Mettiamola così: è come per l’Europa, tutti a dire che così non va, che così non piace, che l’idea dei fondatori era un’altra, ma che però bisogna starci dentro lo stesso, starci dentro in modo diverso, cambiandola dal di dentro.
Ecco, mi sembra che quello che tu dici sulla scuola assomigli tanto a questo: è davvero possibile costruire qualcosa di diverso e di buono nella scuola oggi utilizzando le macerie che vi hanno consegnato?
Lo so, qualcuno potrebbe dirmi, come ho sentito a proposito della riforma costituzionale ieri in tv da un deputato, che non possiamo più stare fermi, che la riforma va fatta, anche se non è la migliore del mondo, e che poi si potrà anche migliorarla, ma intanto ci muoviamo. Quella che una volta era una follia — muoversi senza direzione, anzi già sapendo che quella direzione è sbagliata — oggi diventa una strategia politica, una verità indiscutibile. Si potrà ragionare così? Sono vecchia, ovviamente, e rottamata già da un pezzo, ma, usando una parola che a questi giovani orfani democristiani piace molto, dico che dovremmo rottamare questa scuola senza direzione, senza cuore, senza senso.
Perché vedi, è questo che manca e ogni nuova aggiunta, ogni nuova invenzione estiva, ogni bonus, ogni indicazione sulle competenze, ogni circolare, ogni decisione sembra assomigliare tanto all’agitazione di chi si trova dentro le sabbie mobili. Non vorrei però essere fraintesa: non seguo la stessa logica di chi dice cambiamo per cambiare, dicendo non cambiamo per niente così evitiamo di fare errori; lo so anch’io che è comodo non fare nulla e che così non si sbaglia.



No, io credo che bisogna proprio fare una rivoluzione, quella delle parole chiare e oneste di Umberto Saba, un poeta che dovrebbe piacerti, no? Come si può parlare di un ritorno all’umanesimo nelle indicazioni programmatiche della scuola secondaria e poi fare esattamente il contrario ogni volta che si assumono decisioni a tutti i livelli? Non chiedo niente di più: siate onesti e chiari, smettetela di dire che vi dispiace ma che il mondo va così. Ho sentito un tale, responsabile degli ultimi concorsi ordinari, che ha avuto il coraggio di dire che gli insegnanti bocciati sono stati molti perché non hanno capito che oggi per fare l’insegnante ci vuole ben altro che conoscere la propria materia, ci vuole competenza nel lavoro in team, competenza linguistica, competenza psicologica. Ma questo ci voleva anche quando insegnavo io! Ma loro, come me,  pensavano di fare gli insegnanti, di entrare a lavorare nel misterioso e affascinante mondo dell’educazione, non in un videogioco con tanto di punteggi e gare su vari livelli!  
Caro il mio ex studente e oggi insegnante, abbiate il coraggio di ribellarvi a questo massacro dell’intelligenza e della logica e fate davvero la rivoluzione. Per quanto mi riguarda, proverò a dire in breve cosa mi piacerebbe che succedesse parafrasando le parole di Montale e della sua splendida I limoni, dove credo si condensino l’idea che lui ha della poesia e, per me, anche l’idea della scuola e dell’insegnante che occorre ritrovare nella sua dimensione vera e completa, chiara e onesta.
Nei primi versi della poesia Montale dice che innanzitutto c’è un cammino da compiere per inoltrarsi nella realtà, che fare poesia è andare incontro, muoversi verso; con una particolare predilezione per le strade poco usate, per una pratica delle cose e dei nomi che sono apparentemente poco significativi. Montale, dice poi che, per comprendere la realtà, occorre ascoltarla in silenzio. Davanti alle sue parole nasce uno stupore, nasce il desiderio del poeta di essere accoglienza: lo stupore e il desiderio abbracciano tutto quello che viene, lo custodiscono e basta. E in questa accoglienza il cuore e il pensiero sono più pronti, più acuito il sentimento di una possibilità d’incontrare un senso, un destino buono per ciascuno di noi. E poi, pur dentro la disillusione, se mai sarà possibile ritrovare quell’epifania della felicità che inseguiamo, essa apparirà nello splendore dei limoni, quanto di più concreto è possibile incontrare, eppure capace di indicare altro da sé: il poeta non può che indicare agli altri questo segreto, non può che condividerlo offrendolo a sua volta dentro i nomi con cui l’ha chiamato. 



Riassumendo (oh mamma, il vizio della professoressa mi è rimasto): la poesia è innanzitutto fedeltà alle cose, nasce dallo stupore, dalla fedeltà al loro respiro, dall’accoglienza del loro silenzio e fiorisce nella cura del loro stesso destino. E successivamente, così come l’ha ricevuta, la poesia ridona nella parola quella vita che ha custodito. Se il punto di avvio della poesia è la realtà come dono, il suo termine ultimo è l’offerta: lo sguardo che è stato in grado di accogliere nella fedeltà diventa offerta nella voce.
Ecco forse andrebbe gridato ai quattro venti, spiegato anche a quel responsabile dei concorsi che il professore, né più né meno di un poeta, fa questo mestiere: ha ricevuto un dono, una realtà misteriosa davanti alla quale non può che essere pieno di gratitudine e stupore, una realtà che custodisce dentro una cura e che nella cura restituisce a sua volta offrendola a chi incontra sul suo cammino: se si dimentica di questo, di essere colui che può introdurre alla realtà, non sarà mai un professore. E la scuola non sarà mai una scuola.  
Lo so: metafore e similitudini, mi dirai, altro che parole chiare e oneste! Ma quanta rivoluzione, quanta libertà, quanta autonomia, quanta inclusività, quanto futuro c’è dentro questo programma? C’è qualcosa che, nelle leggi attuali, consenta di fare questo? Se non c’è, bisogna avere il coraggio di ricominciare. Come dici tu nel tuo articolo magari ascoltando i poeti. E qualche vecchia professoressa che adesso torna nella nuvola azzurra da cui mi hai evocato. Che, forse, chissà, era davvero un amore. E voi l’avevate capito.

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