Non tutti se ne stanno rendendo conto. Parlo del processo di burocratizzazione, in atto da qualche anno, del ruolo del preside, oggi chiamato, un po’ enfaticamente, dirigente scolastico. Processo fortemente criticato, fino ad inventare l’accusa di “preside sceriffo”, ed al centro delle novità più significative della cosiddetta Buona Scuola, in questo momento espresse nella famosa “chiamata diretta“.
Si tratta di un processo, accanto ad aspetti positivi, che rischia o sta snaturando il significato “comunitario” di autonomia scolastica, come era stato pensato negli anni novanta, e che ancora oggi, solo sulla carta, rappresenta la cornice normativa della scuola odierna.
E’ in atto, per essere sintetici, un percorso di burocratizzazione del ruolo del preside, non più da vedere, come è oggi, come “capo di istituto”, cioè punto di riferimento anzitutto culturale, didattico ed educativo di una scuola e dunque di una comunità locale. Con scuole, cioè, diverse, grandi e piccole, comunque espressione di una storia e di una capacità di presenza ed interpretazione dei bisogni formativi, delle speranze e delle aspettative delle famiglie e di un territorio.
Il percorso di valutazione dei presidi, sempre più considerati referenti burocratici di una struttura, prevede invece scuole, tutte le scuole, del primo come del secondo ciclo, comparabili, dunque valutabili secondo obiettivi certi (che il direttore regionale indicherà al momento della nomina triennale).
E’ l’epilogo del percorso, a più vasto raggio, di centralizzazione in atto. Che vede nel ministro il referente politico e tutta la struttura come semplice emanazione “funzionale” della volontà politica. Senza più considerare un ruolo attivo agli enti locali, agli enti intermedi, a qualsiasi forma sussidiaria.
E’ una svolta tutta amministrativa (al di là del dettato della legge 107/2015) della scuola italiana odierna. Con la testa al centro, cioè al Miur, che illuministicamente decide, sa, prevede, controlla, finanzia. Le scuole autonome degli anni novanta come le autonomie degli enti locali? Un retaggio del passato. Viene invece affermato il diritto-dovere del potere centrale di occupare tutti gli interstizi della società civile, considerata solo un coacervo di interessi individuali o di gruppo, ma incapace di pensarsi secondo un “bene comune”.
In questo disegno è evidente come il preside non possa, anzi non debba più entrare nel merito culturale, didattico, educativo del proprio profilo di scuola. Anzi, meglio se non se ne occupa. Perché capace di governare solo sulla base dei risultati le professionalità assegnate, risultati da verificare con prove standardizzate.
La dirigenza unica, con presidi provenienti da qualsiasi ordine di scuola (un tempo insegnanti elementari a guidare ora i licei, o docenti di filosofia chiamati a seguire ora un comprensivo), ha di fatto accentuato questo percorso, togliendo alle scuole (ma, come sempre, non si fa di tutta un’erba un fascio) un punto di riferimento non della qualità organizzativa, ma della qualità culturale e relazionale della vita delle scuole.



Ma questa “cultura dei risultati” potrebbe essere declinata in forma diversa, cioè secondo una visione comunitaria, e non più verticistica?
La soluzione potrebbe essere semplice: adottare anche per i presidi lo schema della “chiamata” prevista oggi per i nuovi docenti. Nel senso che i presidi — alla fine del loro contratto triennale — sarebbero tenuti a candidarsi: sulla base di una valutazione di merito sul triennio appena concluso, di un cv dinamico (non solamente la “lista della spesa” prevista dall’europass) e, soprattutto, di un colloquio (con un ispettore dell’Usr e con rappresentanti del consiglio di istituto della scuola prescelta).
Tutti, in poche parole, dovrebbero essere un po’ “misurati” prima di un incarico, vista la delicatezza del ruolo. Anche con un test, come richiesto da Galimberti, psico-attitudinale. E chi non trovasse la scuola? Potrebbe, nei casi estremi, essere retrocesso a docente.
So che sarebbe un po’ farraginoso, il tutto. Ma perché non sperimentare in qualche regione questa novità? Questo richiederebbe, lo sappiamo, la mitica, sempre tentata e mai conclusa, riforma degli organi collegiali. Ma una via sperimentale è sempre possibile, a legislazione vigente.
La crisi di tante scuole, come l’eccellenza di tante altre, deriva, lo sappiamo (anche e non solo) dal ruolo più o meno attivo, propositivo, culturalmente sostenuto, dei propri dirigenti scolastici. I quali riescono in questo loro compito perché, al di là delle competenze burocratiche, sanno o meno valorizzare quelle competenze soft (soft skills) che sono essenziali oggi in tutto il mondo del lavoro. Ancor più in un contesto segnato fortemente dall’etica della solidarietà, vista la diversità qualitativa delle scuole rispetto a qualsiasi azienda o mondo professionale.
Il vero timbro qualitativo di una scuola infatti è tutto nella sua capacità di farsi scuola di una comunità locale, non mera emanazione o espressione periferica del potere centrale. Qual è il “valore aggiunto” di tutto noi, all’interno delle nostre scuole? Perché non prevedere, per chiudere, un voto od una volontà del proprio consiglio di istituto, ai fini di una chiamata, o di una conferma o meno in una scuola come preside?

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