Ricorre quest’anno il centenario della pubblicazione di uno dei testi pedagogici più importanti della storia dell’educazione dell’ultimo secolo: Democrazia ed educazione di John Dewey, lo studioso che insieme a Maria Montessori, a Édouard Claparède e a Jean Pieget rappresenta un riferimento obbligato della pedagogia progressista del secolo scorso. L’evento viene celebrato in questi mesi in più sedi: convegni, riviste specializzate, articoli di alta divulgazione. Democrazia ed educazione merita questa attenzione perché – come tutti i “classici” – conserva nuclei di verità validi anche oggi, specialmente con riguardo alle società che si confrontano con i temi della convivenza multiculturale.
Lo studio di Dewey è un frutto del progressismo americano d’inizio Novecento che guardava alla scuola come a una risorsa irrinunciabile per fare degli Stati Uniti un grande Paese. Presupposto per raggiungere tale traguardo era l’integrazione di masse popolari dalle differenti origini entro un nucleo di valori comuni. Dewey pensava al suo Paese come a un’orchestra sinfonica nella quale le diverse famiglie di strumenti (le differenti tradizioni culturali) concorrono armonicamente a produrre la melodia. Un’utopia, certo, come purtroppo episodi anche recenti sembrerebbe indicare, ma anche un visione alta della vita sociale in cui gli attori sono sempre visti come “qualcuno” da valorizzare, mai ridotti a “qualcosa” da omologare.
Non ci può essere democrazia – osserva Dewey – se non c’è educazione, ovvero se non si sperimenta uno stile di vita basato sul reciproco scambio di doveri e diritti. Non sono soltanto le leggi e le norme giuridiche a rendere democratica una nazione: essa è tale quando la coscienza dei suoi cittadini è formata in modo da creare una rete comunitaria nella quale ciascuno “si sente a casa sua”. Al tempo stesso l’educazione – e in modo speciale quella scolastica – ha bisogno della democrazia perché soltanto entro contesti sociali attivamente partecipati è possibile veicolare i sentimenti solidali e gli ideali politici che costituiscono la base irrinunciabile della vita buona.
Democrazia ed educazione afferma un altro importante principio: l’educazione e la scuola non sono un affare dello Stato (anche se a esso spetta sorvegliarne il funzionamento), ma delle famiglie e delle comunità sociali. La scuola è infatti concepita da Dewey in stretta relazione allo sviluppo sociale e l’educazione, a sua volta, come un fatto eminentemente sociale. Una tesi lontana dal peccato statalista che pochi decenni più tardi si sarebbe impossessato di gran parte dell’Europa con le forme totalitarie di fascismo, nazismo e comunismo.
Il saggio di John Dewey arrivò tardi in Italia: non poteva essere diversamente stante l’autarchia culturale decretata dal fascismo, nemico di tutto ciò che proveniva dalla democrazie liberali. Soltanto nel secondo dopoguerra Democrazia ed educazione sbarcò nel nostro Paese al seguito delle truppe statunitensi. Alla liberazione politica si affiancò infatti la circolazione della pedagogia americana. Ne fu primo tramite il colonnello Carleton Washburne, un allievo di Dewey, già direttore delle scuole di Winnetka, una località nei pressi di Chicago ove aveva messo in pratica i principi della pedagogia progressista.
La Firenze di Ernesto Codignola e Lamberto Borghi fu l’epicentro della diffusione dell’americanismo pedagogico e la casa editrice La Nuova Italia il canale attraverso cui iniziò a penetrare anche in Italia la cultura behaviorista americana. La prospettiva democratica deweyna, ricca di valori, incalzata da nuovi attori (Bruner, Skinner, Bloom), lasciò presto spazio ad analisi pedagogiche tutte volte a rendere più efficace e funzionale l’apprendimento. Nuovi scenari oltrepassarono Dewey e i suoi ideali liberal, curvandone il pragmatismo originario nel senso di un funzionalismo efficientistico.
Il continuo crescendo dell’influenza della cultura psico-pedagogica anglosassone e statunitense in specie (migliorare l’apprendimento per corrispondere alle esigenze delle società tecnologicamente avanzate) fu contenuto fino gli anni 60-70 da robusti anticorpi post gentiliani coltivati sui due versanti del personalismo cattolico e del marxismo gramsciano. Pur irriducibilmente divisi sul piano della visione ultima dell’educazione e da letture antagoniste sul piano politico scolastico, personalisti e comunisti erano tuttavia uniti nell’avversare la riduzione della pedagogia a sociologia educativa e a metodologia didattica, rivendicandone anche la funzione etico-civile.
In quegli stessi anni grandi maestri – intendo insegnanti elementari – proseguirono le esperienze di avanguardia intraprese agli inizi del secolo (Montessori, Lombardo Radice, sorelle Agazzi), vivificando la vita scolastica con una pedagogia capace di mobilitare contestualmente negli allievi le energie cognitive, le esperienze emotive, la dimensione sociale: maestri vicini a Freinet e alle sue tecniche come Bruno Ciari e Mario Lodi e maestri più sensibili alla cultura personalista come Alberto Manzi e Alfredo Giunti. Di questa tradizione restano ormai scarse tracce, quelle più visibili sono legate a uno di questi maestri, Loris Malaguzzi, promotore della esperienza di Reggio Children salita agli onori della cronaca pedagogica in seguito all’interesse suscitato in alcuni studiosi statunitensi e da essi veicolato ad ampio raggio.
Dalla centralità assegnata agli obiettivi di apprendimento fino all’egemonia delle competenze la cultura pedagogica italiana si è gradualmente ma irreversibilmente infeudata alle pratiche metodologiche d’Oltre Oceano. Per portare un solo esempio basta pensare che fino a vent’anni orsono i test (sulla cui utilità, come è noto, è apertissima la discussione negli Stati Uniti) non facevano parte del bagaglio professionale degli insegnanti.
L’impressione è che si stiano perdendo i fili di una tradizione che sempre in passato ha guardato alla scuola prima di tutto come a un luogo affidato alla responsabilità di docenti esemplari e alla trasmissione ed elaborazione culturale e non solo come a un laboratorio di esercizi cognitivi. Lo dimostra l’andamento del dibattito politico scolastico nel quale il confronto su quelli che un tempo erano definiti gli “assi culturali” è pressoché nullo, sostituito dal moltiplicarsi degli interventi sull’efficacia scolastica in termini di organizzazione, managerialità, tecniche di apprendimento, pratiche valutative.
Nonostante ricorrenti di segno contrario, la politica scolastica sembra sempre più lontana dal percepire la scuola come un luogo di formazione etico-civile (che è qualcosa di più sull’insegnamento dell’educazione civica) e questo è un dato davvero sorprendente se si pensa al bisogno di consapevolezza civile del nostro tempo e alla complessità dello “stare insieme”. Quando la scuola si “tecnologizza” (o presume di farlo) si allontana fatalmente dalle questioni vitali di una società perché percepisce la politica soltanto come il luogo dell’opinabile e non come il luogo ove si costruisce la convivenza di domani.
La lettura a 100 anni di distanza di Democrazia ed educazione suggerisce che non ci può essere educazione senza una riflessione sugli ideali proposti ai giovani e senza adulti capaci di testimoniarli. Oggi queste semplici constatazioni sono giudicate poco politically correct e reputate retoriche e residuali. La ragionevole ricerca di efficacia e di efficienza finisce per smarrire questioni più essenziali. Se non si riuscirà a rimetterle in circolazione là dove si prendono le decisioni sarà gioco forza rassegnarsi al venire meno della funzione culturale (e in quanto tale educativa) della scuola e a cedere il timone formativo ad altri soggetti: la rete, i social, i concerti rock, il passeggio del sabato pomeriggio e la casualità degli incontri.