Il valore educativo della mostra che il Meeting ha dedicato al settantesimo anniversario della nascita della Repubblica italiana (L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016) sta nell’introduzione al significato della parola “repubblica”, forse sconosciuto ai giovani per la complessità e bellezza dei suoi nessi con la realtà del nostro Paese.



La “repubblica” non è una cosa, né solo una istituzione, ma una vita pulsante. Quando Péguy riferendosi alla Francia parlava del genere repubblicano, per il quale aveva combattuto culturalmente schierandosi con Dreyfus contro l’autoritarismo clerico-militare, ne parlava con orgoglio perché la repubblica era il suo posto nel mondo, era la conformazione sociale dei suoi ideali di socialista cristiano. La repubblica era lui.



Lo stesso brivido percorre, facendo le debite proporzioni, i visitatori attenti della mostra. La repubblica siamo noi, è la strada che ci siamo scelti, è il nostro passato sociale e il nostro presente culturale e politico. Ne siamo consapevoli? L’esposizione del Meeting offre suggestioni in questo senso e molto materiale affidato ai docenti che potranno utilizzarlo al meglio con le classi contestualizzando le sezioni (storia, politica, economia, arte) in cui si sviluppa il percorso.

Emergono comunque dalle immagini e dalle testimonianze presentate alcuni fatti incontestabili.

Anzitutto la Repubblica trova finalmente nel 2 giugno 1946 la sua data di nascita, con la vittoria del referendum monarchia-repubblica. Prima c’è il fascismo, c’è la guerra mondiale, c’è la guerra civile. La Repubblica la vediamo sorgere dalle ceneri del disegno monarchico sabaudo e dalle macerie ideologiche e materiali di chi voleva ridurre l’Italia ad un’appendice della rivoluzione mondiale. Essa muove i primi passi già sicuri in un mondo minacciato dagli scontri e dalle divisioni provocate dalla seconda guerra mondiale. Il miracolo repubblicano è che quella guerra non si trasforma, come molti volevano e tentarono di fare per un certo tempo, in una guerra interna, nella lotta per l’annullamento dell’avversario. L’Italia nella sua giovane vita istituzionale (cosa sono settant’anni a confronto con altre ben più attempate democrazie!) deve affrontare sfide immani: ricostruzione, terrorismo, crisi istituzionali, modificazione dei costumi. È finora riuscita a superare le sfide perché ha retto il quadro repubblicano, cioè non si è persa la coscienza delle origini.



Il secondo fattore incontestabile che viene a galla dalla mostra è proprio questo. L’origine è l’accettazione della cultura dell’altro: cultura politica fondata su un’ampia visione della vita e dei rapporti umani. Dopo “repubblica” sarà questa la seconda parola sulla quale i docenti troveranno modo di dialogare con i propri alunni: “cultura”. Non si tratta solo di un sapere, ma di un “sapere perché” liberamente scelto. Le culture del nostro Paese (cattolica, socialista e liberale) si concessero un credito. Si combattevano energicamente ma non si elidevano.

La Costituzione del ’48, sebbene imperfetta, dimostra la potenzialità di questo credito reciproco tra persone comuniste, cattoliche e liberali che erano cariche di idealità. Fa sorridere un breve passaggio di un video della mostra nel quale Vittorio Foa (Partito d’Azione) racconta di come La Pira (Democrazia Cristiana) volesse inserire nella Costituzione un riferimento a Dio. Bonariamente, così dice l’azionista, gli si fece capire che non si poteva costringere il Parlamento a votare su Dio. Bonariamente, appunto. Ma è come se avesse detto: idealmente lo capivamo.

L’idealità, la mostra lo spiega bene, attraversò negli anni Cinquanta-Sessanta perfino l’economia. Anche questo esempio sarà da focalizzare bene con alunni desiderosi di capire il “boom economico”: certo mosso da congiunture favorevoli, ma soprattutto da personalità cariche di fervore comunitario (Mattei). La mostra fa capire che le culture possono degenerare (Sessantotto, terrorismo, attentato a Moro, ecc.) ma possono anche “tenere” se fedeli all’origine. Questo è il lavoro che riguarda nel presente chi educa, chi lavora nella scuola. La cultura del dialogo, richiamata così spesso da Papa Francesco, può affermarsi nella (apparente) odierna fine delle culture? La mostra rilancia potentemente questa domanda e traccia una possibile strada: la cultura non è qualcosa che si conserva, ma il giudizio che oggi si dà per affrontare la sfida del vivere. Da questo punto di vista il passato si collega al presente e il contributo di questo scavo su come eravamo diventa produttivo di nuova linfa. 

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