E se il futuro del globo non fossero le nazioni bensì le città? È questa una domanda destinata a scombinare il lavoro di riflessione sul passato che si fa nella scuola.
Questo forte stimolo a pensare la storia da un punto di vista non convenzionale nasce dallo spazio che il Meeting di Rimini ha, appunto, dedicato al tema delle città. Ancora vibra la commozione per l’incontro “Il mondo è in fiamme ma le città non devono morire”, con il quale si è voluto celebrare, tra l’altro, un presagio di La Pira, indimenticato sindaco di Firenze che radunò nel 1955 i sindaci delle città capitali del mondo. Qui al Meeting hanno dialogato sindaci e personalità di cultura di alcuni luoghi attraverso i quali oggi passano a vario titolo le contraddizioni del mondo: Tunisi ferita dagli attentati marca Isis del 2015, Diyarbakir a maggioranza curda in territorio turco, Lampedusa meta dei migranti mediterranei, Firenze capitale della cultura e sfregiata non oggi ma nel recente passato da attentati mafiosi (1993). Idealmente era presente anche Aleppo, che in queste ore vive la sua drammatica via crucis.
Città che agonizzano, città che rinascono, città che accolgono. Uno studio recente dell’Onu rivela che oggi la popolazione mondiale per il 54 per cento vive in aree urbane: salirà al 66 per cento nel 2050. India, Cina e Nigeria sono gli Stati protagonisti della crescita urbana, che evidentemente è collegata alla ricerca di sicurezza, lavoro, a volte pura sopravvivenza. La città batte la campagna o forse semplicemente la paura della solitudine. Sono occorsi secoli per constatare questa semplice verità che i nostri antenati medievali avevano afferrato molto bene: l’aria della città rende liberi, perché strappa l’individuo al potere del proprietario terriero che impone a vario titolo le sue corvée.
Che grande storia quella delle città, dalla loro fondazione che risale a sei millenni di anni or sono nell’antica Mesopotamia ad oggi, quando paradossalmente tra il Tigri e l’Eufrate, le più antiche culle della civiltà, rischiano di essere cancellate dalla più impressionante ideologia dis-umanizzante che l’uomo abbia prodotto.
La storia della città è un filone che nella scuola si ha ben presente, però forse relegandolo troppo alle fasi più iniziali degli studi, quando ai bambini si mostrano le mura merlate che marcano un territorio e si vagheggiano le botteghe, le chiese, le fiere, gli spazi per le assemblee del popolo. L’ottica cittadina è un buon criterio per fare storia a tutti i livelli, perché il tema dello sviluppo della città e delle sue articolazioni ha una sua dignità che merita particolare attenzione. La città è, infatti, soprattutto cura dell’altro, progettualità, disponibilità alla risposta comune ai bisogni singoli.



Se il leitmotiv che prevale nella lettura normale delle vicende umane è quello della guerra, bene, la storia della città rappresenta un filone costruttivo, perché lo statuto della città è quello che impone alle persone che si radunano sotto il gonfalone di trionfare sull’ideologia della morte e dell’annullamento delle speranze.
La città, è ovvio, ha attraversato un cammino tortuoso, non privo di contraddizioni. Alle antiche città-Stato sono succeduti gli imperi. Poi la storia greca e romana è stata una storia di città, e quali città! Le loro forme organizzative hanno trasmesso all’umanità i valori della partecipazione, del rispetto delle leggi, della custodia della memoria. Nell’antichità il fenomeno della sottomissione di un popolo era legato alla distruzione delle sue città, non appena alla vittoria in una battaglia. Senza città un popolo è nomade o alla ricerca di una terra promessa dove potersi insediare. Il popolo di Israele combatte per Gerico, la conquista, la demolisce e poi la ricostruisce.
Qui è il dramma che simboleggia la tensione perenne tra l’essere errante (Into the Wild) e l’essere stanziale, insediato in un luogo organizzato che modifica e a volte corrompe il carattere. Noi europei non conosciamo però solo le città della romanità degenerata dalla quali, come fece San Benedetto con Roma, l’uomo integro volle allontanarsi. Conosciamo la pagina gloriosa delle città divenute “Comuni”, cioè libere associazioni di cittadini che si impegnavano a servirsi reciprocamente. Città che si sono difese dalle ingerenze dell’imperatore tedesco sostenute dalla Chiesa; città che sono cresciute all’epoca delle Signorie dando sfogo alle velleità dei ceti contrapposti e abbellendosi di arte e di monumenti.
L’Umanesimo nasce nelle biblioteche dei conventi, il Rinascimento fiorisce nella città che si contendono i maggiori artisti. La rifeudalizzazione, le carestie, le pestilenze che hanno colpito le città più delle campagne (ricordiamo la Milano dei Promessi Sposi) non hanno avuto ragione delle città che sono rinate nei secoli della modernità ad opera del ceto più cittadino di tutti, la borghesia imprenditoriale. Città dai viali al centro e dalle fabbriche in periferia. L’uomo borghese è diviso in sé stesso e nasconde i vizi sotto il tappeto dei vantaggi. Le città sono state protagoniste delle innovazioni e delle rivoluzioni. Luigi XVI viene riportato in città per essere giudicato e la Comune di Parigi è il primo tentativo di applicazione alla storia dell’esperimento comunista che nella città esibisce anche il suo primo clamoroso fallimento. La città non ama essere padroneggiata, bensì essere bene amministrata.
La seconda guerra mondiale, soprattutto, si è caratterizzata per la distruzione di alcune città cardine: Varsavia, Dresda, Berlino, Hiroshima e Nagasaki, quasi a conferma che per colpire gli uomini si mira ad azzerare la fonte della loro sicurezza, quell’espansione del nucleo familiare che è appunto la città. Queste città degli uomini sono state ricostruite, hanno abbattuto i muri divisori come ha fatto Berlino nell’89, ma non hanno dimenticato i potenziali distruttori dell’unità per le quali consistono.



E se dormono, attenti! Il letargo è apparente, come hanno dimostrato recenti elezioni amministrative. La città non fa sconti a chi la governa, non guarda al colore politico del sindaco quando si tratta di organizzare i trasporti, allocare da qualche parte i rifiuti, rispondere al bisogno di istruzione dei più giovani, sistemare le periferie. Ha bisogno oggi di un nuovo punto di consistenza.
Per questo, quando alcune città simbolo della memoria e della convivenza tra religioni e culture come Aleppo sembrano soccombere, come è successo per Beirut, Juba, Dubrovnik, Palmira, nasce spontaneo un moto di condivisione profonda con il punto in cui poggia la croce che misteriosamente unisce il cielo e la terra. Questo punto è oggi la comunità dei frati francescani di Aleppo. Una comunità che testimonia che dalla carne e dal sacrificio può rinascere la pace e la convivenza. Da lì o da nessun luogo.

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